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sabato 24 maggio 2014

LE CONSEGUENZE DELLA PRIMAVERA

Galleggiavo nel liquido primordiale, al riparo dal caos cosmico, come una creatura nascosta in un anfratto marino dall’atmosfera calda e rarefatta. Ero in attesa di scontrarmi con la vita. Quella del pianeta Terra, meno rassicurante e accogliente rispetto al ventre materno che mi ha trasmesso energia per nove mesi.
“Mancano pochi giorni” avvertì una voce maschile dall’esterno.
Rewind. Il nastro si avvolge e in un istante torno alle origini.
La nazionale di Tardelli e Altobelli è pronta ad innalzare la terza coppa del mondo sull’erbetta spagnola, nell’afosa estate del 1982: gli azzurri di mister Bearzot travolgono i tedeschi con una prestazione passata alla storia.
Leggenda vuole che sia stata concepita in pieno tripudio calcistico sul divano di una lontana parente, fresca di trasloco al mare. E’ un racconto sospeso tra realtà e fantasia, tramandato dai membri della tribù matriarcale con piglio ironico e a tratti imbarazzante.
“Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo” urlò Nando Martellini con tutto il fiato rimasto in gola. A Madrid avevamo sconfitto la Germania fra le mura del Santiago Bernabeu, salendo sul tetto del mondo. Le coriacee mani di Dino Zoff accarezzarono e sollevarono l’ambito trofeo d’oro. Fu il capitano ad assaporare in anteprima il nettare della gloria.
L’11 luglio ’82 l’Italia s’è desta. Insieme all’orgoglio di un paese che di colpo tornò ad essere unito sotto lo sventolio del tricolore, capace di innescare la fugace miccia del patriottismo. Da Nord a Sud, dilagò il sentimento dell’italianità: le piazze furono invase dall’inarrestabile onda azzurra gonfia di delirio. In quella notte magica, Lecce rimase sveglia a lungo. Era una notte che avrebbe cambiato per sempre le nostre esistenze.


Ciondolavo a testa in giù, indugiando sul da farsi. “Si sta così bene” pensai, “Non c’è fretta di ...”
La frase mi si strozzò in gola. D’un tratto, l’universo intorno iniziò a tremare: percepivo ogni singola scossa, tra respiri a intermittenza intravidi un filo di luce che, col passare dei secondi, divenne un fascio sempre più consistente. Passai dalla penombra alla nitidezza di lampade al neon, catapultata sotto i riflettori di un palcoscenico.
Ululante e ricoperta di sangue, esordii con una coreografia di saluto dedicata alla prima platea della Vita. Abbracciai mamma tra le sfumature dell’alba, senza sapere quale sarebbe stato il mio nome.
Si era invaghita, anni prima, di un esile giovanotto dalla capigliatura rada, impreziosita da riflessi dorati, che alla luce del sole accendevano i contorni del viso tondeggiante. Fu il suo sguardo a ipnotizzarla: occhi blu, come zaffiri del Kashmir, la trascinarono nella stanza dei desideri senza chiedere permesso.
Ottava di dieci figli, Aurora venne al mondo in una umile dimora di campagna, accolta dall’indifferenza del padre, che bramava la nascita di un maschio. 
“Le femmine portano solo disgrazie e non hanno braccia abbastanza forti per lavorare nei campi”, sbottò lasciandosi alle spalle la camera da letto adibita ad ostetricia.
Ben presto, però, il contadino dal cuore di pietra dovette fare i conti con una figlia ambiziosa, seppur servizievole e rispettosa. Aurora aveva sete di conoscenza. A scuola riuscì a distinguersi per diligenza e capacità d’apprendimento, qualità che la sospinsero al traguardo della maturità da ragioniera.


Un nome può fare la differenza. Può segnare il tuo cammino per sempre, può ricordarti chi sei e da dove vieni, può ricordarlo allo stesso modo agli altri, con una fastidiosa veemenza.
L’alba del 30 marzo 1983, fu un’alba diversa dal solito: ero venuta al mondo intorno alle 5 del mattino (un orario che nessuno ricorda con precisione), nel giorno del Mercoledì Santo, mentre i fedeli si accingevano a rivivere la passione di Cristo, trepidanti e certi della sua Resurrezione.
Dai finestroni dell’ospedale si poteva godere dell’insolito spettacolo offerto dal cielo, una tela impressionista dipinta con tonalità scarlatte, intervallate dal marrone e dall’arancio. Era un cielo sanguigno, in perfetta sintonia con il sentimento religioso di quei giorni: dall’alto pioveva terra rossa, sabbia che si posò sulle strade del Salento creando una sottile coltre, per poi essere spazzata via dal vento nelle ore seguenti.
Lacrime di gioia, pensai. L’intera famiglia avrebbe saputo della mia nascita di lì a poco dalla voce di mio padre. Il messaggero raggiunse in auto la casa dei nonni materni in paese per comunicare la notizia. Avevano già dei nipoti: ad occhio e croce, sarei stata la undicesima.
“E’ nata. E’ in perfetta salute” annunciò mio padre.
“Un altro dono di Dio” commentò la nonna, incrociando le mani sotto il petto.


Il reparto di neonatologia era una martellante jam session di pianti e singhiozzi. I parenti arrivavano alla spicciolata per fare la mia conoscenza, proponendo alla neo-mamma un nome diverso rispetto a quelli immaginati durante la gravidanza.

“Chiamala Maria Pia, come tua madre”, le suggerì una cugina. “Ne sarebbe contenta”.
“Non saprei… mamma non è legata a queste tradizioni” ribatté mia madre con un filo di voce.
“Perché no? E’ un nome bellissimo, le si addice molto”, incalzò la suggeritrice.

Maria Pia. Me lo scrisse l’infermiera sul braccialetto con inchiostro indelebile. Il nome composto che tutti, negli anni seguenti, avrebbero modificato a loro piacimento, storpiato, accorciato, vezzeggiato e reinventato, nel bene e nel male. Pia, Pipetta, Pinuccia, Mari Pirla, Piotta, Pera, Perazza, Maria Pina, Pay, Meri Pai, e l’immancabile M. Pia (Emme Punto Pia).

“Cazzo! Mi chiamo Maria Pia, ficcatevelo nella testa”. 

1 commento:

  1. I nomi propri non sono delle semplici parole, l'unione asettica di vocali e consonanti.
    Pesano tantissimo - anche più dei pensieri - anche se leggerissimi.
    Maria Pia.

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