Il direttore aveva un aspetto
insignificante. Uomo minuto, dallo sguardo strizzato, pochi capelli in testa e
un’apparente arroganza che usava come scudo contro il mondo intero. La vita lo
aveva messo con le spalle al muro, per questo la sua missione era la vendetta.
Con le parole o con i fatti, anche se i suoi risultati non sarebbero mai stati
degni di nota. Leo riusciva a mala pena a farsi rispettare dal resto della
redazione e veniva bollato come un imbecille senza spina dorsale dal grande
Capo. Il Presidente in persona: B.B., temuto e riverito.
Mi fece accomodare su una
poltroncina nera, nella quale sprofondai goffamente, fasciata in un tailleur
gessato, acquistato per la laurea in Scienze della Comunicazione (che errore! la
facoltà e pure la scelta del tailleur). Consegnai nelle sue mani il curriculum,
ricevendo in cambio un sorriso sarcastico, sottotitolato: “Questa è carta
straccia”. Timidamente iniziai a raccontare le mie aspirazioni e la mia
passione per la scrittura, ma dall’alto della sua sgarbata “superiorità” mi
interruppe pochi secondi dopo. “Ma che è sta voce?” tuonò l’uomo dall’attitudine
di un coleottero, nel suo slang a metà strada tra il salentino e il romanesco.
L’aver vissuto alcuni anni nella capitale lo rendeva tronfio, anche quando
sciorinava nozioni di dizione, condite da residui di carbonara. “E tu vorresti
fare la giornalista televisiva con questa voce?” incalzò senza la minima pietà,
sfoderando un ghigno compiaciuto. “Neppure se scrivessi come Dante potresti
avere speranza”.
Stop. Addio sogni di gloria!
Bruciati in un attimo da uno pseudo-giornalista con il timbro da speaker
radiofonico anni ’80. Caldo, ma antiquato. Dall’uomo che, come avrei scoperto
nei mesi successivi, aveva l’abitudine di aggirarsi per i corridoi di TeleSette fingendo di parlare al cellulare, nel tentativo di darsi delle arie e risultare
credibile agli occhi dei suoi “sudditi” ribelli.
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