Galleggiavo nel liquido
primordiale, al riparo dal caos cosmico, come una creatura nascosta in un anfratto
marino dall’atmosfera calda e rarefatta. Ero in attesa di scontrarmi con la
vita. Quella del pianeta Terra, meno rassicurante e accogliente rispetto al
ventre materno che mi ha trasmesso energia per nove mesi.
“Mancano pochi giorni” avvertì
una voce maschile dall’esterno.
Rewind. Il nastro si avvolge e in
un istante torno alle origini.
La nazionale di Tardelli e
Altobelli è pronta ad innalzare la terza coppa del mondo sull’erbetta spagnola,
nell’afosa estate del 1982: gli azzurri di mister Bearzot travolgono i tedeschi
con una prestazione passata alla storia.
Leggenda vuole che sia stata concepita
in pieno tripudio calcistico sul divano di una lontana parente, fresca di
trasloco al mare. E’ un racconto sospeso tra realtà e fantasia, tramandato dai
membri della tribù matriarcale con piglio ironico e a tratti imbarazzante.
“Campioni del mondo, campioni del
mondo, campioni del mondo” urlò Nando Martellini con tutto il fiato rimasto in
gola. A Madrid avevamo sconfitto la Germania fra le mura del Santiago Bernabeu,
salendo sul tetto del mondo. Le coriacee mani di Dino Zoff accarezzarono e sollevarono l’ambito trofeo d’oro. Fu il capitano ad assaporare in anteprima il nettare della gloria.
L’11 luglio ’82 l’Italia s’è
desta. Insieme all’orgoglio di un paese che di colpo tornò ad essere unito
sotto lo sventolio del tricolore, capace di innescare la fugace miccia del
patriottismo. Da Nord a Sud, dilagò il sentimento dell’italianità: le piazze
furono invase dall’inarrestabile onda azzurra gonfia di delirio. In quella notte
magica, Lecce rimase sveglia a lungo. Era una notte che avrebbe cambiato per
sempre le nostre esistenze.
Ciondolavo a testa in giù,
indugiando sul da farsi. “Si sta così bene” pensai, “Non c’è fretta di ...”
La frase mi si strozzò in gola. D’un
tratto, l’universo intorno iniziò a tremare: percepivo ogni singola scossa, tra
respiri a intermittenza intravidi un filo di luce che, col passare dei secondi,
divenne un fascio sempre più consistente. Passai dalla penombra alla nitidezza di
lampade al neon, catapultata sotto i riflettori di un
palcoscenico.
Ululante e ricoperta di sangue, esordii
con una coreografia di saluto dedicata alla prima platea della Vita. Abbracciai
mamma tra le sfumature dell’alba, senza sapere quale sarebbe stato il mio nome.
Si era invaghita, anni prima, di un
esile giovanotto dalla capigliatura rada, impreziosita da riflessi dorati, che alla
luce del sole accendevano i contorni del viso tondeggiante. Fu il suo sguardo a
ipnotizzarla: occhi blu, come zaffiri del Kashmir, la trascinarono nella stanza
dei desideri senza chiedere permesso.
Ottava di dieci figli, Aurora venne
al mondo in una umile dimora di campagna, accolta dall’indifferenza del padre,
che bramava la nascita di un maschio.
“Le femmine portano solo disgrazie e non
hanno braccia abbastanza forti per lavorare nei campi”, sbottò lasciandosi alle
spalle la camera da letto adibita ad ostetricia.
Ben presto, però, il contadino
dal cuore di pietra dovette fare i conti con una figlia ambiziosa, seppur
servizievole e rispettosa. Aurora aveva sete di conoscenza. A scuola riuscì a
distinguersi per diligenza e capacità d’apprendimento, qualità che la
sospinsero al traguardo della maturità da ragioniera.
Un nome può fare la differenza.
Può segnare il tuo cammino per sempre, può ricordarti chi sei e da dove vieni,
può ricordarlo allo stesso modo agli altri, con una fastidiosa veemenza.
L’alba del 30 marzo 1983, fu
un’alba diversa dal solito: ero venuta al mondo intorno alle 5 del mattino (un
orario che nessuno ricorda con precisione), nel giorno del Mercoledì Santo,
mentre i fedeli si accingevano a rivivere la passione di Cristo, trepidanti e
certi della sua Resurrezione.
Dai finestroni dell’ospedale si
poteva godere dell’insolito spettacolo offerto dal cielo, una tela
impressionista dipinta con tonalità scarlatte, intervallate dal marrone e
dall’arancio. Era un cielo sanguigno, in perfetta sintonia con il sentimento
religioso di quei giorni: dall’alto pioveva terra rossa, sabbia che si posò
sulle strade del Salento creando una sottile coltre, per poi essere spazzata
via dal vento nelle ore seguenti.
Lacrime di gioia, pensai. L’intera
famiglia avrebbe saputo della mia nascita di lì a poco dalla voce di mio padre.
Il messaggero raggiunse in auto la casa dei nonni materni in paese per
comunicare la notizia. Avevano già dei nipoti: ad occhio e croce, sarei stata
la undicesima.
“E’ nata. E’ in perfetta salute”
annunciò mio padre.
“Un altro dono di Dio” commentò
la nonna, incrociando le mani sotto il petto.
Il reparto di neonatologia era
una martellante jam session di pianti e singhiozzi. I parenti arrivavano alla
spicciolata per fare la mia conoscenza, proponendo alla neo-mamma un nome
diverso rispetto a quelli immaginati durante la gravidanza.
“Chiamala Maria Pia, come tua
madre”, le suggerì una cugina. “Ne sarebbe contenta”.
“Non saprei… mamma non è legata
a queste tradizioni” ribatté mia madre con un filo di voce.
“Perché no? E’ un nome
bellissimo, le si addice molto”, incalzò la suggeritrice.
Maria Pia. Me lo scrisse
l’infermiera sul braccialetto con inchiostro indelebile. Il nome composto che
tutti, negli anni seguenti, avrebbero modificato a loro piacimento, storpiato,
accorciato, vezzeggiato e reinventato, nel bene e nel male. Pia, Pipetta,
Pinuccia, Mari Pirla, Piotta, Pera, Perazza, Maria Pina, Pay, Meri Pai, e
l’immancabile M. Pia (Emme Punto Pia).
“Cazzo! Mi chiamo Maria Pia, ficcatevelo nella testa”.