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venerdì 30 maggio 2014

LE IMPRESSIONI DELLA LUNA

Margot ha paura del buio. E’ terrorizzata dall’oscurità, dall’incognita del nulla. Dall’oltre. Nelle sere d’estate spalanca le finestre per catturare il bagliore dei lampioni e della luna che danza sui tetti della città. Certe sere la luna si inabissa cedendo il proscenio alle stelle, oppure si nasconde dietro grappoli di nuvole, poi riappare…uno spicchio dopo l’altro, fino a brillare come una perla d’acqua di mare.

Margot ha trascorso notti senza fine a scrutarla, mentre i minuti ticchettavano sull’involucro della mente, scivolando verso le ore. E non c’era pace. Solo il tormento del mancato riposo. L’insonnia le mordeva lo stomaco, le tirava i capelli, lacerando la sua lucidità. Avrebbe voluto sprofondare nell’oblio, spazzare via i pensieri o addirittura fare a pezzi la memoria, fonte del disagio interiore che non la lasciava vivere. Ma cos’è un essere umano senza memoria?  Solo una sagoma, un’ombra fugace.

Non c’è black-out che tenga. L’inconscio sussurra, fa tornare a galla scorie d’esistenza che avevamo rimosso, chiuse nei cassetti del passato. La luna le indicò la via: “Se vuoi salvarti, torna indietro”. La consapevolezza sarebbe stata, dunque, la chiave di volta.

Quella notte Margot sfidò le sue paure, dichiarò guerra ai demoni dello spirito. Era sopravvissuta in punta di piedi, rimanendo in silenzio, senza mai urlare. Ben presto avrebbe imparato a sputare la rabbia addomesticata nel torrente della risalita.

mercoledì 28 maggio 2014

IL LICEO (SCIENTIFICO) E' PER SEMPRE

L'hobby più gettonato della sezione G (1996/2001) era riportare nero su bianco gli strafalcioni dei professori. A pari punti con il passatempo degli sfottò indirizzati al “Forrest Gump” del disegno: A. A., un tempo temuto e rispettato dai suoi alunni e di colpo diventato il compagno di banco "ideale". Quello da prendere in giro, senza tregua.
Dopo anni di tirannia, la sua eccessiva severità venne messa al tappeto da un gruppo di angeli vendicatori che in principio si accanirono sull'auto del bersaglio, per poi dare libero sfogo all'indole collettiva da Karate Kid. Un riprovevole episodio di violenza, che consegnò ai posteri un personaggio di grande spessore ludico-didattico.
In sua presenza, l’ora di disegno coincideva con il cazzeggio, con la ricreazione prolungata, con le interviste a sfondo sessuale (n.b. lo studente interroga il docente, "estorcendo" confessioni sulla propria vita privata). In quarto superiore il preside decise di punirci, privandoci dell'ora d'aria. Il nostro idolo fu sostituito con un vero insegnante di disegno tecnico e storia dell'arte, munito di squadre e fogli acetati. Sprofondammo nell'abisso del 41 bis. L'anno successivo, per intercessione divina, ci concessero la grazia. A.A. tornò tra le nostre braccia, e fu di nuovo festa.

I perpetrati oltraggi alla cultura, seviziata da docenti di filosofia, matematica e biologia, andarono a comporre il corposo manoscritto: “Orrori in cattedra”. Inedito, ma sacro come la Bibbia.
Nella top ten comparivano le perle di saggezza di una delle più grandi filosofe contemporanee, il cui albero genealogico sembrerebbe essere apparentato con alcuni discendenti illegittimi di Aristotele, approdati in Magna Grecia intorno al 760 d.C. Le dava gran filo da torcere la prof. di matematica, particolarmente apprezzata per le sue abilità cognitive e per il “minuscolo” neo  incastonato sul mento, autentico capolavoro della natura dipinto in sopra rilievo.

Le due candidate al primo premio lottarono stoicamente. “Come osi sfidarmi?” ruggì la peripatetica* (disambiguazione: il termine è usato in riferimento ai membri di una delle più grandi scuole filosofiche greche; da non confondere con l’aggettivo dispregiativo che indica le prostitute di strada) puntando il dito contro il genio della matematica, ingaggiato dal Provveditorato agli studi per prepararci agli esami di maturità.

“Professoressa, mi scusi, come posso risolvere l’ultimo passaggio di questo problema?” le domandai sottovoce durante la seconda prova d’esame.  I pizzini infilati nella cartucciera erano serviti a ben poco, e in preda alla disperazione mi rivolsi a lei, nell’estremo tentativo di salvarmi da quella giungla di numeri.
“C’è un teorema che potrebbe aiutarti, ma consulta il manabile…non lo ricordo alla perfezione” mi rispose con un sorriso intontito, pronunciando testuali parole in dialetto salentino.

Perché? Perché  l’ ho fatto? Perché ho scelto il liceo scientifico? Me lo chiesi fino all’ultimo giorno di scuola. Odiavo la matematica, la fisica, corredo di cifre e segni incomprensibili agli occhi di un qualsiasi essere umano affascinato dalle parole, dalla letteratura e dal latino. Lingua morta, ma senz’altro materia meno ostile.


Lo feci per non abbandonare un paio di compagne delle medie, un po’ per moda, mai per convinzione. Mi trovai in un covo di matematici in erba, la metà dei quali oggi esercita la professione di ingegnere o medico. Ecco, appunto. Io sono una scribacchina ed era facile intuire sin dalle elementari che non avrei seguito le orme della Montalcini. 

domenica 25 maggio 2014

LA “CRISTOTECA”: CANTA E BALLA CON GESU’

Prima di Papa Francesco, molto prima di Suor  Cristina (la monaca canterina di The Voice), Dio creò Don Leandro, il chierichetto ordinato sacerdote nella Valle della Cupa. Aveva 20 anni appena quando promise di dedicare la sua vita al prossimo, tenendolo per mano lungo il cammino segnato due millenni orsono da Gesù. Nessuno, però, avrebbe mai potuto immaginare l’originalità della sua missione. 
Don Leandro è un perfetto organizzatore d’eventi, uno show man, un intrattenitore: nel suo Dna oltre alla fede, c’è lo spettacolo. Per questo è osannato come una popstar dai fedeli della parrocchia. 
Tra un Salve Regina e un Padre Nostro, il buon pastore prepara il cartellone estivo del quartiere, contatta i gruppi da far esibire, e a ridosso delle festività Natalizie pianifica i “casting” per il presepe vivente. Sull’agenda personale non mancano, naturalmente, gli itinerari turistici che spaziano dal Capo di Leuca fino al Monte Bianco, sponsorizzati attraverso il "volantinaggio selvaggio" sui pali della pubblica illuminazione e sui muretti a secco che delimitano il sentiero del fitness. 
Dimenticavo, all’elenco delle sue innumerevoli attività occorre aggiungere la sfilza di ricorrenze religiose e non, celebrate con processioni agli orari più insoliti, fiere, mercatini, cortei bandistici, e giochi pirotecnici…tanti, tantissimi fuochi d’artificio.
Don Leandro è conosciuto come uno dei precursori italiani della “Cristoteca”, la tendenza di pregare ballando, nata qualche anno fa a Rio de Janeiro. Le parole del Vangelo scorrono su maxischermi giganti a ritmo di house music, hip hop, tecno, mentre in consolle si alternano dj con la tonaca. Bisogna ammetterlo…La Chiesa, ne sa una più del diavolo!

Dal Brasile al Salento, il passo è breve: ecco trasformato il sagrato della parrocchia in una Cristoteca a cielo aperto. Nelle sere d’estate, luci psichedeliche brillano sulla Corrida di Don Leandro & company, creando la giusta atmosfera per interminabili maratone musicali che evocano la grandezza di Woodstock. 

E’ mezzanotte passata. Domani la mia sveglia suonerà alle 6.30. Ho tanto sonno, ma i decibel della Cristoteca sono alle stelle. Sul palco si alternano una decina di giovani musicisti: è il turno di un gruppo reggae (incredibile, Marja sul sagrato della Chiesa!). Amo il reggae, ma sono stanca e voglio dormire. Lo stesso dicasi per mia cugina, che da giorni prova a studiare coi tappi alle orecchie…abita a due passi da questo luogo di culto surreale, oramai provata dal susseguirsi di rave party cattolici.
Se da un lato Don Leandro può contare su uno stuolo di fan credenti, dall’altra i suoi “detrattori”, per lo più atei-agnostici, implorano una qualsiasi entità superiore pur di mettere fine alla tortura di concerti e veglie danzanti dal tramonto all’alba.

E' proprio vero: il passato è il tempio dei rimpianti. Un tempo c’erano le soavi note di preziosi organi in argento,  le voci bianche di cori angelici impegnati nell’esecuzione dell’Ave Maria di Schubert…oggi va di moda la “Cristoteca”: cosa aspetti? Canta e balla con Gesù, oppure datti all’induismo!

sabato 24 maggio 2014

LE CONSEGUENZE DELLA PRIMAVERA

Galleggiavo nel liquido primordiale, al riparo dal caos cosmico, come una creatura nascosta in un anfratto marino dall’atmosfera calda e rarefatta. Ero in attesa di scontrarmi con la vita. Quella del pianeta Terra, meno rassicurante e accogliente rispetto al ventre materno che mi ha trasmesso energia per nove mesi.
“Mancano pochi giorni” avvertì una voce maschile dall’esterno.
Rewind. Il nastro si avvolge e in un istante torno alle origini.
La nazionale di Tardelli e Altobelli è pronta ad innalzare la terza coppa del mondo sull’erbetta spagnola, nell’afosa estate del 1982: gli azzurri di mister Bearzot travolgono i tedeschi con una prestazione passata alla storia.
Leggenda vuole che sia stata concepita in pieno tripudio calcistico sul divano di una lontana parente, fresca di trasloco al mare. E’ un racconto sospeso tra realtà e fantasia, tramandato dai membri della tribù matriarcale con piglio ironico e a tratti imbarazzante.
“Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo” urlò Nando Martellini con tutto il fiato rimasto in gola. A Madrid avevamo sconfitto la Germania fra le mura del Santiago Bernabeu, salendo sul tetto del mondo. Le coriacee mani di Dino Zoff accarezzarono e sollevarono l’ambito trofeo d’oro. Fu il capitano ad assaporare in anteprima il nettare della gloria.
L’11 luglio ’82 l’Italia s’è desta. Insieme all’orgoglio di un paese che di colpo tornò ad essere unito sotto lo sventolio del tricolore, capace di innescare la fugace miccia del patriottismo. Da Nord a Sud, dilagò il sentimento dell’italianità: le piazze furono invase dall’inarrestabile onda azzurra gonfia di delirio. In quella notte magica, Lecce rimase sveglia a lungo. Era una notte che avrebbe cambiato per sempre le nostre esistenze.


Ciondolavo a testa in giù, indugiando sul da farsi. “Si sta così bene” pensai, “Non c’è fretta di ...”
La frase mi si strozzò in gola. D’un tratto, l’universo intorno iniziò a tremare: percepivo ogni singola scossa, tra respiri a intermittenza intravidi un filo di luce che, col passare dei secondi, divenne un fascio sempre più consistente. Passai dalla penombra alla nitidezza di lampade al neon, catapultata sotto i riflettori di un palcoscenico.
Ululante e ricoperta di sangue, esordii con una coreografia di saluto dedicata alla prima platea della Vita. Abbracciai mamma tra le sfumature dell’alba, senza sapere quale sarebbe stato il mio nome.
Si era invaghita, anni prima, di un esile giovanotto dalla capigliatura rada, impreziosita da riflessi dorati, che alla luce del sole accendevano i contorni del viso tondeggiante. Fu il suo sguardo a ipnotizzarla: occhi blu, come zaffiri del Kashmir, la trascinarono nella stanza dei desideri senza chiedere permesso.
Ottava di dieci figli, Aurora venne al mondo in una umile dimora di campagna, accolta dall’indifferenza del padre, che bramava la nascita di un maschio. 
“Le femmine portano solo disgrazie e non hanno braccia abbastanza forti per lavorare nei campi”, sbottò lasciandosi alle spalle la camera da letto adibita ad ostetricia.
Ben presto, però, il contadino dal cuore di pietra dovette fare i conti con una figlia ambiziosa, seppur servizievole e rispettosa. Aurora aveva sete di conoscenza. A scuola riuscì a distinguersi per diligenza e capacità d’apprendimento, qualità che la sospinsero al traguardo della maturità da ragioniera.


Un nome può fare la differenza. Può segnare il tuo cammino per sempre, può ricordarti chi sei e da dove vieni, può ricordarlo allo stesso modo agli altri, con una fastidiosa veemenza.
L’alba del 30 marzo 1983, fu un’alba diversa dal solito: ero venuta al mondo intorno alle 5 del mattino (un orario che nessuno ricorda con precisione), nel giorno del Mercoledì Santo, mentre i fedeli si accingevano a rivivere la passione di Cristo, trepidanti e certi della sua Resurrezione.
Dai finestroni dell’ospedale si poteva godere dell’insolito spettacolo offerto dal cielo, una tela impressionista dipinta con tonalità scarlatte, intervallate dal marrone e dall’arancio. Era un cielo sanguigno, in perfetta sintonia con il sentimento religioso di quei giorni: dall’alto pioveva terra rossa, sabbia che si posò sulle strade del Salento creando una sottile coltre, per poi essere spazzata via dal vento nelle ore seguenti.
Lacrime di gioia, pensai. L’intera famiglia avrebbe saputo della mia nascita di lì a poco dalla voce di mio padre. Il messaggero raggiunse in auto la casa dei nonni materni in paese per comunicare la notizia. Avevano già dei nipoti: ad occhio e croce, sarei stata la undicesima.
“E’ nata. E’ in perfetta salute” annunciò mio padre.
“Un altro dono di Dio” commentò la nonna, incrociando le mani sotto il petto.


Il reparto di neonatologia era una martellante jam session di pianti e singhiozzi. I parenti arrivavano alla spicciolata per fare la mia conoscenza, proponendo alla neo-mamma un nome diverso rispetto a quelli immaginati durante la gravidanza.

“Chiamala Maria Pia, come tua madre”, le suggerì una cugina. “Ne sarebbe contenta”.
“Non saprei… mamma non è legata a queste tradizioni” ribatté mia madre con un filo di voce.
“Perché no? E’ un nome bellissimo, le si addice molto”, incalzò la suggeritrice.

Maria Pia. Me lo scrisse l’infermiera sul braccialetto con inchiostro indelebile. Il nome composto che tutti, negli anni seguenti, avrebbero modificato a loro piacimento, storpiato, accorciato, vezzeggiato e reinventato, nel bene e nel male. Pia, Pipetta, Pinuccia, Mari Pirla, Piotta, Pera, Perazza, Maria Pina, Pay, Meri Pai, e l’immancabile M. Pia (Emme Punto Pia).

“Cazzo! Mi chiamo Maria Pia, ficcatevelo nella testa”. 

giovedì 22 maggio 2014

ESILIATA A BRINDISI, “BENVENUTA POPPITA”


Sbarcai a “Marlboro city” una mattina di marzo, a bordo di un Maserati grigio metallizzato,
pilotato dal direttore del tg, giovane talentuoso che, di lì a poco,  sarebbe approdato alla corte di Bruno Vespa. Sfrecciammo sulla Lecce-Brindisi, tra chicane e rettilinei,  alla velocità di 200 km orari, senza neppure un pit-stop, con il sottofondo del mio cuore che galoppava dalla paura di rimanerci secchi.
Nonostante la folle corsa, arrivammo sani e salvi nel capoluogo messapico, che ebbi modo di conoscere anni prima attraverso sporadiche incursioni turistiche, rese possibili dalle potenti locomotive di Trenitalia. Presi l’ascensore che mi condusse al quarto piano: la redazione di Brindisi era la miniatura della sede centrale. Stessi colori, stessa architettura dello studio televisivo, ma in scala ridotta. Mi feci il segno della croce e strinsi la mano ai miei nuovi compagni d’avventura: avremmo lavorato gomito a gomito per quattro anni, nella buona e nella cattiva sorte.
Mi accolsero apostrofandomi nel modo in cui tutti i brindisini fanno con i leccesi: “pòppita”. Colpevole di essere cresciuta post-oppidum, vale a dire oltre il confine segnato dalle mura della città. Un termine dispregiativo, usato per identificare i forestieri provenienti dal Sud del Sud, considerati incivili e campagnoli. La pòppita, 25enne e dal sangue giallorosso, con un recente passato da stagista, era stata  appena “promossa” ad aspirante giornalista televisiva. Sgobba, ragazzina, sgobba!
I colleghi brindisini, loro malgrado, impararono a convivere con la pischella di Trepuzzi, ridente cittadina dell’hinterland leccese. Dal canto mio, pur di uscire indenne dalle fauci di Filia Solis, l’amata terra di Federico II, fui costretta a mascherare il mio accento salentino, almeno per i primi mesi. Bandite le seguenti vocali: “e-u”, ero a Brindisi,  l’area geografica in cui tutte le parole finiscono per i. Marammei
Optai per un italiano senza inflessioni di alcun tipo, quello che, per lo stupore di tutti, sfoggiavo con una scioltezza di plastica durante i tg confezionati perennemente con l’acqua alla gola, in barba alle insidie della concorrenza, in barba all’assenza di fogli A4, agli infarti improvvisi di stampante e pc, agli stati febbrili di registi e cameraman, e all’esaurimento (nervoso) dell’inchiostro. 
Prima regola della tv: c’è sempre un imprevisto prima di andare in onda. Il nostro pane era la frenesia, abituati a correre da una parte all’altra. Io in primis, la “piccenna”, come venni ribattezzata affettuosamente dalle giunoniche Lucie, caporedattrice e vice, con un decolleté in grado di sotterrare l’autostima di qualsiasi donna nata con la seconda, scarsa. Nella redazione ero il jolly, l’ultima arrivata, e quindi l’arancia da spremere fino all’ultimo atomo di polpa. Ero la ragazza delle emergenze, delle notizie da ultima pagina, o se serviva da apertura, quella da mandare in giro per le interviste tra il serio e il faceto lungo Corso Umberto. E’ il bello della gavetta, signori! Nei limiti della decenza e della moralità, si è disposti a tutto pur di ritagliarsi un posticino in ambito professionale. 
Ma c’è di più: sono stata persino il tom-tom personale di Piero C., leggenda vivente delle riprese televisive in diagonale, il cameraman che non seppe mai individuare la posizione del municipio di Brindisi, né distinguere Lucia Senior da Lucia Junior, colui che si alzò in piena notte (nella leggendaria casa di Monteroni) trascinando il figlio con sé per recarsi a lavoro per il turno delle 18-23. Ritrovò il senno e la cognizione temporale quand’era troppo tardi, in prossimità dello svincolo per Torchiarolo
Piero ha sempre avuto un “fiuto particolare” per i casi di cronaca nera: tra una sigaretta e l’altra discettava amabilmente di omicidi e rapine, indossando i panni dell’infallibile “commissario Locisto”. Dopo il ritrovamento del cadavere della povera Sarah Scazzi, ci stupì con una personalissima ricostruzione del delitto di Avetrana, ricostruzione che riuscì a far impallidire le 8 versioni di Michele Misseri.
Piero è sempre stato dentro la notizia, cavalcando l’onda dell’attualità da prima pagina, con il piglio da operatore cinico e “poco attento” ai dispiaceri generati dalla cronaca nera. La tv, per Piero, è come un campo di battaglia, da vivere in prima linea. Poche lacrime e molto coraggio. Con una conseguente comicità sulla platea dei colleghi, che tuttora ne narrano le eroiche gesta.

Nel rutilante mondo dell’informazione, il palinsesto ha inizio con il rituale della rassegna stampa, una tortura inflitta al sonnecchiante Morfeo un paio di volte a settimana. Il che significava sveglia alle 5.45 e di corsa in macchina, alle prime luci dell’alba. Quindi l’incontro con il giornalaio (lo spacciatore dei quotidiani - da sottolineare muniti di evidenziatore) che si ostinava a salutarci con nomignoli dalla spiccata derivazione televisiva: Telerumba, Telerambo, Teleroma, etc. Non era forse sufficiente il celebre “Teletrama”, coniato dalla simpatica canaglia di Nichi? Evidentemente no. L’edicolante si divertiva a storpiare il nome di Telerama, provava un sottile piacere nel vederci al suo cospetto, già stanchi alle 6.30 del mattino, o alle 9 di una domenica qualunque, giorno deputato al riposo. Degli altri.

Al termine della rassegna e del collegamento con Lecce, la cronaca cittadina si consumava tra piazza Cairoli e il Lungomare Regina Margherita, saltando da un consiglio comunale a un convegno in Confindustria, passando per la conferenza organizzata dal sindacalista del piano di sopra. All’ordine del giorno non mancavano le battaglie ambientaliste e le baruffe politiche, qualche rapina sfociata in sparatoria, e le gloriose imprese della squadra di basket. 
Brindisi, città affascinante e ricca di contraddizioni, riflessa nell’azzurro del mare, osservava in silenzio, in cima alla colonna della Scalinata Virgiliana.

Dedicato a Lucia & Lucia, Sonia, Antonio, Cristina, Salvatore & Salvatore, Giovanni, Michele, Luigi, Marco, Piero, Vincenzo.



martedì 20 maggio 2014

NATE SOTTO IL SEGNO DELLA ZITELLA


Si avvisano i gentili lettori che quanto segue è dettato dall'ironia.


“San Nicola, fa che non rimanga zitella come mia zia! San Nicola, fa che le mie amiche trovino marito e diano alla luce un paio di marmocchi a testa! Ti prego, San Nicola, prometto solennemente di rispettare gli assurdi dogmi imposti dal cattolicesimo, che non sto qui ad elencare. Per essere più convincente, se lo desideri, verrò a pregare in chiesa ai piedi della tua statua ogni domenica d’agosto, mentre il resto degli umani è a mollo nelle acque cristalline di San Gregorio, tuo nemico giurato. Ti supplico, ti scongiuro… San Nicola, sii clemente, abbi pietà di noi”.
Mi svegliai in piena notte in un bagno di sudori, mentre dalle mie labbra fuoriusciva un filo di voce implorante il Santo. Ero al brusco risveglio da un incubo seriale che mi perseguitava da tempo, disturbando impunemente il mio sacro riposo. Sinuose figure femminili dalle fattezze di Eva Kant si impossessavano dei nostri uomini, lasciandoci sole, in eterno. Spalancai gli occhi e afferrai il bicchiere lasciato sul comodino la sera prima, tracannando acqua al pari di una dozzina di cicchetti dell’amore sormontati da riccioli di panna, come quelli gustati anni addietro al bancone del mitico Est Cafè, ritrovo per universitari alla disperata ricerca del senso della vita. Le mie amiche, invece, cercavano in tutti i modi di cancellare dalla carta d’identità il marchio dell’infelicità, quell’aggettivo infamante che rendeva la loro esistenza vacua e triste. Non c’è offesa peggiore che dire a una donna “sei una povera NUBILE”. Alias zitella, il contrario di colei che con un gioco di prestigio convola a giuste nozze nell’arco di 3-5 mesi, non prima di aver ricevuto dal malcapitato un anello tempestato di diamanti. L’inesorabile scorrere del tempo, superato il traguardo dei 30 anni, ha le sembianze di un trapano che perfora l’animo, lasciandolo sfinito in un cassonetto dei rifiuti, soprattutto se mentre canti sotto la doccia sogni i fiori d’arancio, la marcia nuziale e una pioggia di riso e confetti col ripieno alla vaniglia. 
Ho conosciuto la leggenda di San Nicola nel corso dei preparativi di una puntata di “Salento d’amare”, programma televisivo dedicato alle tradizioni e alle peculiarità della Terra d’Otranto. Tra diavoli, streghe ed eroici guerrieri, talvolta mi sono imbattuta nelle oscure agiografie di Santi nostrani, venerati dai fedeli nei secoli dei secoli. Spesso la devozione valica il confine dell’intimismo, trasformandosi in condivisione, ben oltre la preghiera. Nel Sud Italia, rendiamo grazie ai Santi facendo festa. Al calar del sole, dopo lunghe processioni che attraversano i borghi come serpenti tra gli ulivi, si dà fuoco alle polveri: le luminarie si accendono incorniciando la banda dei musicanti, le case si svuotano e le bancarelle, traboccanti di scapece e mostaccioli, diventano rifugio di bambini paffuti, avidi di dolciumi e cianfrusaglie.
La città di Maglie celebra il Vescovo di Mira nella prima decade di maggio. Lo elesse Santo patrono nel lontano 1807, quando le sue immortali spoglie furono trafugate dal Medioriente fino a Bari. Secondo gli agiografi, Nicola fu di una generosità proverbiale: impedì a un ricco signorotto decaduto di avviare alla prostituzione le sue tre figlie. Le difficoltà economiche dell’epoca avrebbero impedito alle fanciulle di arrivare sull’altare, ma il Santo entrò di soppiatto nell’abitazione per tre notti di seguito dispensando tre sacchi di monete sonanti. Un bel gruzzolo, capace di far gola a qualunque uomo in odor di matrimonio. Persino il sommo Dante cita l’episodio delle monete nella Divina Commedia, per bocca di Ugo Capeto.
Lo status di zitella era dunque ritenuto un castigo inflitto dalla provvidenza, ma una simile interpretazione non andava a genio al poeta neretino che, all'alba del XX secolo, scrisse i versi di “Malidittu l’amore”. Francesco Castrignanò descrive le zitelle come bianche e dorate farfalle che svolazzano da un fiore all’altro. “Con me non c’è nessuno che si innamori, forse morirò zitella” suppone il poeta. Ma forse, care ragazze, è meglio così. “L’amore è maledetto - avverte lo scrittore - e i figli accrescono le pene”.
Se invece agognate l’abito bianco, non resta che rivolgervi a San Nicola, proprio come avveniva in passato nel Salento. Vi svelo la formula magica: “Santu Nicola miu, se nu  me mariti, paternosci de mie nu ne spettare”. E vissero felici e zitelle!

SOPRAVVISSUTI A CASALABATE

Il sole ha deciso di riprendersi la scena, squarciando quel fastidioso velo grigio che aleggiava da settimane sulle nostre teste, nonostante l'arrivo di maggio. I suoi raggi filtrano tiepidi dalla finestra, creando un caleidoscopio di colori tra le suppellettili di cristallo che popolano l'antico mobile ereditato dalla casa dei nonni.
Intorno, un religioso silenzio, interrotto soltanto dalla scia di qualche auto in corsa verso la frenesia quotidiana. Sul patio osservo il brulicare di vita animale e vegetale, respiro a fondo l'aria frizzante delle sette del mattino, intrisa di aromi primaverili. Tra qualche ora la mia pelle avvertirà il tepore che preannuncia l'estate. Chiudo gli occhi e ricordo. Ricordo la spiaggia dell'infanzia e dell'adolescenza, il mare che ci scrutava imperturbabile tra le peripezie acrobatiche di tuffi e capriole, salvo poi sfidarci con l'irruenza delle sue onde.
La casa delle vacanze, per gli squattrinati come noi, ha sempre rappresentato un miraggio: la mia banda rientrava nella schiera dei pendolari. Uniti nella cattiva sorte da un unico motto, divenuto mantra: "Accontentati di ciò che hai, e così sia".
All'epoca, tra i nostri averi figuravano una Ritmo, una 500 vecchio tipo, una Panda celeste col cofano bruciacchiato, e una Seat Ibiza, gli unici mezzi di trasporto posseduti dalla sciagurata stirpe cui appartengo. Macinini che miracolosamente si trasformavano in scuolabus estivi  alla conquista della costa adriatica. Proprio così. Era questo il piano che per anni misero in atto le sorelle De Lorenzis, madri scrupolose in tutti i frangenti, tranne uno: quello delle gite al mare. Scirocco o tramontana, di prima mattina caricavano i propri pargoli a bordo delle famigerate auto, alla stregua di sardine in scatola o come buoi stipati in un treno merci. Nel tragitto verso Casalabate, io e i miei cugini grondavamo di sudore, appiccicati gli uni agli altri, dagli arti superiori fino alle caviglie. Avrei aperto volentieri lo sportello per fare accomodare on the road uno degli adorati consanguinei, uno a caso, pur di godere di qualche grammo d’ossigeno in più, ma la mia fama da brava bambina mi faceva puntualmente desistere. E così il sacrificio di massa si ripeteva per 22 kilometri, fra andata e ritorno, ogni qualvolta le nostre accompagnatrici decidessero di trascorrere mezza giornata sulla spiaggia di Casalabate, la porta del Salento, per lungo tempo abbandonata all'oblio dei leccesi, cultori di San Cataldo e Torre Chianca. Poi, per la "Cenerentola dell'Adriatico" arrivò il giorno della rivincita grazie agli indomiti cavalieri di Trepuzzi e Squinzano, che la riscattarono a colpi di referendum. L'orfanella riabbracciò i suoi genitori naturali, salutando per sempre Lecce, la matrigna snob e senza cuore.
Casalabate si odia o si ama. Chi ha avuto la s-fortuna di nascere nei dintorni, non ha conosciuto altre località balneari fino alla maggiore età. Con l’invidia nei confronti dei bagnanti di Porto Cesareo e Torre dell’Orso, siamo cresciuti a un soffio dal mostro di Cerano, che da bambina osservavo incuriosita durante l’edificazione di castelli di sabbia. Cerano ha l’aspetto di un presagio che si allontana o si avvicina a seconda della direzione del vento; è uno spettro che si dissolve dietro il muro della foschia, per poi riapparire in tutta la sua inquietudine.
Mi sono sempre chiesta cosa fosse quel cilindro allungato dal quale uscivano nuvole di fumo. Col passare del tempo ho risolto l’enigma: si tratta della ciminiera di una delle centrali termoelettriche più inquinanti d’Europa, di proprietà dell’Enel. Anche se, per un breve periodo, provarono ad ingannarmi con la storiella del parco-giochi. Enel ha dato lavoro a migliaia di persone delle province di Brindisi e Lecce, tra cui mio zio, che un giorno mi portò a visitare il maestoso impianto, dotato di spazi verdi e di un’area relax pensata per i figli degli operai. Cerano non è solo carbone: sa offrire momenti di divertimento, mentre qualcuno è impegnato a nascondere sotto il tappeto la polvere nera che si posa come rugiada sulle case e sulle coltivazioni a ridosso del nastro trasportatore. Negli anni ‘80 Lido Cerano rappresentava uno degli scorci più esclusivi del litorale sud brindisino. Poi, nel 1992, fu eretta la centrale “Federico II”. E la mia Casalabate cambiò volto. Il panorama fu deturpato, per sempre. L’aria che respiriamo inquinata, senza possibilità d’appello.
Quando la rabbia bussa alla mia porta, inforco gli occhiali da sole, salgo in macchina e mi affido alle carezze del mare di Casalabate.



lunedì 19 maggio 2014

IL DIRETTORE DEL CIRCO MEDIATICO

Il direttore aveva un aspetto insignificante. Uomo minuto, dallo sguardo strizzato, pochi capelli in testa e un’apparente arroganza che usava come scudo contro il mondo intero. La vita lo aveva messo con le spalle al muro, per questo la sua missione era la vendetta. Con le parole o con i fatti, anche se i suoi risultati non sarebbero mai stati degni di nota. Leo riusciva a mala pena a farsi rispettare dal resto della redazione e veniva bollato come un imbecille senza spina dorsale dal grande Capo. Il Presidente in persona: B.B., temuto e riverito.
Mi fece accomodare su una poltroncina nera, nella quale sprofondai goffamente, fasciata in un tailleur gessato, acquistato per la laurea in Scienze della Comunicazione (che errore! la facoltà e pure la scelta del tailleur). Consegnai nelle sue mani il curriculum, ricevendo in cambio un sorriso sarcastico, sottotitolato: “Questa è carta straccia”. Timidamente iniziai a raccontare le mie aspirazioni e la mia passione per la scrittura, ma dall’alto della sua sgarbata “superiorità” mi interruppe pochi secondi dopo. “Ma che è sta voce?” tuonò l’uomo dall’attitudine di un coleottero, nel suo slang a metà strada tra il salentino e il romanesco. L’aver vissuto alcuni anni nella capitale lo rendeva tronfio, anche quando sciorinava nozioni di dizione, condite da residui di carbonara. “E tu vorresti fare la giornalista televisiva con questa voce?” incalzò senza la minima pietà, sfoderando un ghigno compiaciuto. “Neppure se scrivessi come Dante potresti avere speranza”.
Stop. Addio sogni di gloria! Bruciati in un attimo da uno pseudo-giornalista con il timbro da speaker radiofonico anni ’80. Caldo, ma antiquato. Dall’uomo che, come avrei scoperto nei mesi successivi, aveva l’abitudine di aggirarsi per i corridoi di TeleSette fingendo di parlare al cellulare, nel tentativo di darsi delle arie e risultare credibile agli occhi dei suoi “sudditi” ribelli.

Il lecchinaggio, a dire il vero, era una pratica diffusa tra cameraman e giornalisti esclusivamente al cospetto dell'effettivo detentore dello scettro, l’altissimo e magnificentissimo B.B., Leo, al contrario, era un soggetto da sbeffeggiare vis-à-vis, tra le righe, o nella stanza accanto tra un gossip e l’altro, protetti dalla sinfonia delle tastiere. Quando faceva capolino all’improvviso, col suo passo felpato, da agente 007, il discorso sterzava sul blitz dei Carabinieri o sullo scandalo dell’Onorevole Ics. Lui controllava, aveva la mania di controllare, di sentire tra le sue mani il giocattolo del potere, un potere che nessuno in realtà gli avrebbe mai conferito. Povero diavolo, che pena mi faceva! Ha macinato kilometri nella sede della tivvù, intento a dirigere il nulla, incapace persino di abbozzare una scaletta del notiziario, ma creativo fino al punto da disegnare il logo per la celebre maratona sportiva che ogni anno riuniva il popolo pugliese sotto il vessillo della "Grande Famiglia".