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venerdì 19 dicembre 2014

OGNI BENEDETTO NATALE

Venuto alla luce il Salvatore del mondo, lo scambio dei regali assumeva puntualmente le sembianze di un Portobello di bassa lega. Sul divano della casa presa in affitto cresceva l’accozzaglia di cianfrusaglie, molte delle quali reperite last minute dalla cartoleria dietro l’angolo. Ogni Natale la stessa scena. Lo stesso film. Regali fatti “con il cuore” ad ogni singolo componente della comitiva, che per estensione era equiparabile alla più numerosa tribù degli Aztechi mai riportata sui libri di storia. Penne e matite erano in cima al paniere dei doni natalizi, insieme agli immancabili e inutili portachiavi, dispersi da tempo per le strade del mondo, magari stipati nei bidoni dell’immondizia. Sì, accadeva anche questo. Perché la locuzione latina “De gustibus non est disputandum” non può essere ritenuta verità assoluta. Soprattutto se ricevi in dono un qualsiasi oggetto non meglio identificato, foderato con della carta da parati. Il kitsch non deve essere giustificato in alcun modo. E’ spazzatura.

Servirebbe dunque un nuovo pensiero filosofico, da diffondere tra gli abitanti del pianeta: non più il riciclo di strenne di cattivo gusto da rifilare ai propri nemici, bensì il divieto di acquisti orripilanti, al fine di incrementare il risparmio globale, con buona pace dell’economista John Maynard Keynes, che ci ha inculcato il vizio di spendere, trasformandoci in una massa di consumatori dalle mani bucate.

Qualche cambiamento, ringraziando il cielo, c’è già stato: con il passare degli anni, siamo riusciti a ridurre la cerchia degli eletti, portando la lista dei regali ad un numero ragionevole, contribuendo così a ridurre i livelli di panico pre-natalizio che ci affligge da sempre. Scusate, piccola parentesi. Mi sovvengono in questo istante i bellissimi braccialetti ricevuti in dono da un caro amico emigrato nella capitale, degni degli accessori di Barbie. Era il 25 dicembre del 2009 (?).
Tutto ciò avveniva, come di consueto, tra le mura di una gelida catapecchia, che decoravamo senza particolare slancio artistico, per una mera parvenza natalizia. I tappi degli spumanti prendevano il volo insieme ad improvvise imprecazioni da osteria, dettate dall’alcol o dalla rabbia scaturita da una disfatta al tavolo da gioco. La Casa delle feste, in realtà, era una bisca. Memorabili le gesta di colei che barava con destrezza, truffando chiunque le capitasse sotto tiro. Nessuna pietà: l’imperativo era vincere. Che si trattasse del gioco del “Morto”, conosciuto anche come “Asu ca fuce” (l’asso che fugge),  del Mercante in fiera,  dei mazzetti, o di quella diavoleria statunitense delle carte da UNO, l’effetto sortito era sempre lo stesso: un gruppo di ludopatici pronti ad inventare qualsiasi tranello pur di mettere in saccoccia il gruzzolo di monete custodito nel bicchiere di plastica. “Scunzamuuuu!” Una voce si levò in preda all’ira funesta, dopo un +4 rifilato dall’avversario (vedi regole del gioco UNO). Non avrei potuto sopportare l’ennesimo fardello. Mi alzai dalla sedia e con uno scatto felino misi fine a quella tortura mischiando le carte sul tavolo. “Che abbia inizio una nuova partita.” Un vero coup de théâtre.

Ma nessuno ha mai raggiunto i livelli di colui che si ingegnava nel gioco del morto per rubare le vite ai sopravvissuti. La sua condanna era morire prima degli altri. La nostra subire i suoi stratagemmi. In molti ci sono cascati, aprendo bocca e cedendo la vita al diabolico zombie. Sillabava offese provocando l’avversario, offriva birra e cioccolatini, rubava borsette e cellulari estorcendo risposte telefoniche. Litri di lacrime sono stati versati grazie alle sue trovate geniali.


Ed eccoci, a pochi giorni dal Natale, che coincide con un compleanno speciale, ancora una volta di corsa,  alla perenne ricerca del regalo giusto. Il tasso di schizofrenia è alto, il portafogli sempre più vuoto. Tra epurazioni e new entry, siamo sempre quelli che si ritrovano a mezzanotte per lo scambio dei doni e degli auguri,  tra risate e baruffe. A proposito, ragazzi… che si fa a Capodanno?

sabato 27 settembre 2014

TREPUZZI, CITTA' DEL GIORNALISMO


 
Trepuzzi che rinasce, su più fronti. Grazie al fermento culturale e alle idee di giovani che non si arrendono di fronte alla crisi e, nello specifico, di fronte alle difficoltà del comparto editoriale.
Dal 9 al 12 ottobre Trepuzzi si trasformerà nella città del giornalismo, aprendo le porte ai professionisti della penna e non solo, attraverso seminari, incontri formativi, lezioni e workshop.
Dagli open data ai social network, dalla trasparenza amministrativa alla partecipazione attiva dei cittadini nella costruzione delle notizie, fino ai cambiamenti di un mestiere che, in quanto tale, non merita il trattamento di un hobby.
Questi i temi delle Giornate del Giornalismo, l’iniziativa ideata dal giornalista Lucio Lussi dell’Associazione Culturale Fermenti Intraprendenti in collaborazione con la Regione Puglia e l’Arti (Agenzia Regionale per la tecnologia e l’innovazione) nell’ambito del progetto Laboratori dal Basso (azione della Regione Puglia cofinanziata dall’Unione Europea attraverso il PO FSE 2007-2013).
L’evento è patrocinato dal Comune di Trepuzzi, dal Gal Valle della Cupa, dal Comune di Squinzano e dall’Associazione Amici di Maurizio Rampino.
Le lezioni e i workshop saranno tenuti da docenti universitari, giornalisti ed esperti del settore, presso l’aula consiliare del Comune di Trepuzzi.
Tra i relatori interverranno Tommaso Labate del Corriere della Sera, Paolo Bracalini de Il Giornale, Michele Mezza, vicedirettore di Rai International, Federico Bastiani (fondatore della prima realtà di social street), Marzia Antenore (docente di comunicazione alla Sapienza di Roma), Ernesto Belisario (esperto di open data) e Sergio Talamo (giornalista ed esperto di trasparenza delle Pubbliche Amministrazioni) e un nutrito gruppo di giornalisti locali (Marco Renna, Pierpaolo Lala, Mauro Marino, Emilio Faivre, Vincenzo De Filippi, Salvatore Papa).
Le Giornate del Giornalismo rappresentano, inoltre, un utile momento formativo. Ai giornalisti che parteciperanno alle lezioni pomeridiane del 9 e dell’11 ottobre saranno rilasciati i crediti formativi obbligatori dal 2014.
Numerosi gli eventi collaterali. Il giornalista di Rai 3 Fulvio Totaro racconterà il giornalismo agli alunni delle scuole medie ed elementari. Presso la libreria Fanny di Trepuzzi, nella serata di venerdì 10 ottobre, si terrà la tavola rotonda “Il Salento degli scrittori e dei poeti”. L’incontro sarà moderato da Mauro Marino e vedrà la partecipazione di Luisa Ruggio, Osvaldo Piliego, Danilo Siciliano, Simone Giorgino, Ada Fiore e altri.
Le Giornate del Giornalismo si chiuderanno domenica 12 ottobre con il convegno “Un giornalismo libero e indipendente: come costruire una professione autonoma dalla politica”. Parteciperanno all’incontro il responsabile Comunicazione del Pd Francesco Nicodemo, Stefano Cristante (docente dell’Università del Salento), Valentino Losito (presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia), giornalisti, parlamentari e amministratori locali. Il dibattito sarà moderato dal direttore di TG Norba 24 Vincenzo Magistà.
Maggiori informazioni sulla pagina Facebook (Le Giornate del Giornalismo). Iscrizioni alla mail: giornatedelgiornalismo@gmail.com
 

mercoledì 24 settembre 2014

ERAVAMO ADOLESCENTI: STORIE DA TREPUZZI E DINTORNI


N.B. Foto post-adolescenziale
Strani amori adolescenziali, sbocciati ai margini del “Boschetto”, o sulle panchine di Largo Magherita, alias “La Villa”, entrati di diritto nella leggenda come luoghi di rendez-vous e chiacchiere, risate e cazzotti, di passioni nate sotto la luna, scandite dal reggae dei Sud Sound System. Erano i tempi in cui Nando e i suoi compari iniziavano a declinare l’aggettivo Beddhra, omaggiando le muse ispiratrici dellu Salentu. Li vidi per la prima volta sul palco del vecchio campo sportivo, a 16 anni, reduce dalla prima delusione “sentimentale”, nel periodo “più alcolico” della mia esistenza, quando con il resto della comitiva si sperimentavano i cocktail acrobatici di Vincenzino, in quel di Novoli.

Storie di andate e ritorni in sella a uno scooter o a bordo di una Renault 5 prossima alla demolizione, con le amiche di sempre, quando lo studio matto e disperato veniva interrotto dall’atteso squillo del cellulare.



Storie di rock and roll all’aperto e  di Pasquette finite rotolando sull’asfalto, dopo l’olimpionico lancio della focaccia sul lunotto, di bicchieri traboccanti di Canei a San Martino o a San Lorenzo (che fine ha fatto il Canei, amaramente sostituito dalla Tennent’s?).

E ancora, la musica che avremmo voluto ascoltare dal vivo, ma che ingiustamente ci è stata negata, perlomeno agli albori dell’adolescenza. Un fatto riprovevole, rimasto impresso come una cicatrice nella memoria di molte mie coetanee: l’annullamento del concerto di NEK, al secolo Filippo Neviani, organizzato allo stadio Vittorio di Trepuzzi, nel lontano 1997. Ero pronta, eravamo pronte, davanti agli insormontabili cancelli col biglietto in mano, ad assistere alla perfomance del nostro idolo dagli occhi di ghiaccio.

La copertina del disco incriminato
Lo avevamo sognato per mesi, dopo aver imparato a memoria le tracce del suo ultimo lavoro “Lei, gli amici e tutto il resto”, su tutte “Laura non c’è” e “Cuori in tempesta”. Disco acquistato a Ferragosto, in versione cassetta tarocca (dalla bancarella di C********A), e ascoltato più volte nell’Audi 80 di mio padre, mentre il resto della famiglia faceva il bagno nelle acque di Riva degli Angeli.



“Nek, perché non Ci sei tu, Nek?” Fummo sull’orlo di una crisi isterica. Accadde senza preavviso. Palco sprofondato? Compenso non accordato? La faccenda rimase avvolta nel mistero. Con un’unica triste conseguenza: il concerto non s’ha da fare.
Semmai, ci avrebbero rimborsato il costo del biglietto, 36.000 lire, unico sollievo in quella valle di lacrime. Abbiate pietà, eravamo solo delle QUATTORDICENNI!
Segue…

 

 

30 MARZO 1983



Mi abituai a vivere circondata da donne vestite di nero: intorno a me, era il colore predominante. Nel primo nebuloso anno di vita distinguevo i volti familiari in base a ciò che indossavano.

Il perché lo avrei scoperto alcuni anni dopo. Non ricordo con esattezza l’istante di quella rivelazione, giacché ci sono momenti dell’infanzia di cui si ha una consapevolezza sfocata, appartenente a un altro mondo. Eppure costituiscono un’incrollabile certezza della propria esistenza.

Il mio facciotto, da cui spuntavano occhi grandi e rotondi, prediligeva il contatto con figure femminili avvolte in abiti scuri, e andava schivando le sagome colorate.

Era così da quel mattino di primavera in cui la terra si era dipinta di polvere rossa caduta dal cielo. Il giorno della mia nascita innescò un incendio di emozioni, che avrebbe lasciato focolai lungo la strada per un tempo indefinito.

Nessuno aveva osato raccontare la verità. Nessuno ebbe la forza di lacerare le calde viscere materne con la lama tagliente del dolore. Un dolore inspiegabile, irrazionale, che stritola l’anima. Un tiro mancino pianificato dalla sorte, o forse un’atroce casualità. La vita che si scontra con la morte. O la morte che cede il passo ad una nuova creatura, in una staffetta esistenziale voluta chissà da quale dio. Quel dio a cui non ho mai stretto la mano, per rabbia, per mancanza di fede.

Le lacrime di gioia divennero lacrime amare. C’era un uomo provato dalla sofferenza lungo il viale di casa, che con un incedere lento, con l’inconfondibile  suono di passi strascicati, accompagnava la sua sposa verso il riposo eterno. C’erano anche i suoi figli, il più giovane appena diciottenne, disorientato tra lo sciame di parenti. All’appello mancava Aurora, la più giovane delle figlie femmine, diventata madre poche ore prima.

“Maria Pia, chiamala Maria Pia, come tua madre…”

Mentre il mio nome era stato deciso e scritto, la terra si accingeva ad accogliere le spoglie di nonna.

Il 30 marzo, il giorno della mia nascita, coincise con la sua morte. Il cuore fragile di una donna gentile e buona, cessò di battere, poco dopo aver appreso la notizia del lieto evento. Un infarto impietoso, più aggressivo rispetto al precedente, se la portò via durante la corsa in ambulanza. Nel suono della sirena si spense il suo ultimo alito di vita, si spense la bellezza di una nonna che non ho mai conosciuto, fu scritto il capitolo di una figlia che non ha potuto dire addio alla madre.

Lo scoprì al rientro dall’ospedale, dopo aver raggiunto la vecchia casa di via Mazzini. Aurora esplose in un urlo e pianse singhiozzando, senza tregua, senza riuscire a trovare pace. Viveva il lutto fra lo strazio e il tormento di un’ingiustizia divina. Ma la sua forza era sorprendente. E il suo amore nei miei confronti non ha mai vacillato, nonostante il trambusto iniziale.

Fu la prima a togliersi di dosso quegli abiti neri, per riportare il sole sul mio viso. Anche se le nuvole, si sa, vanno e vengono. Come nel giorno del mio compleanno, da bambina, quando nonno mi stringeva a sé piangendo, cercando tra i miei capelli l’odore della moglie. O quando, nel momento in cui spegnevo le candeline, un prete celebrava la consueta messa commemorativa.

Nel mio destino c’era quel nome composto, Maria Pia, legato a quel preciso evento. Oggi, da adulta, ritrovo il nero nel buio della notte. In compenso, il mio guardaroba è pieno di abiti dai colori vivaci, come la stagione che mi ha messa al mondo.


 



lunedì 4 agosto 2014

SAN LORENZO E LA FIGLIA DI PIERO ANGELA

La maestra mi affidò il copione: “Vestirai i panni di una giornalista e intervisterai i tuoi compagni di classe”. Dal palco della scuola elementare di via G. Elia andò in scena la mia prima “diretta”, la puntata zero de “La figlia di Piero Angela”, un viaggio nei meandri della lingua italiana, colorito dalle esilaranti incursioni dialettali degli "opinionisti".
Indossavo una giacca beige e la classica gonna plissettata in voga negli anni ‘90. Ombretto blu elettrico in pendant con la gonnella e orecchini floreali lontani anni luce dai canoni della sobrietà. Imperdonabile scelta della stylist di fiducia, mia madre.

Era tutto scritto, segnato a caratteri cubitali nei registri della V C. Destino ineluttabile.
15 anni dopo, al fianco dello stakanovista dal cuore d’oro Santo Frisella, avrei registrato una sequela di puntate nei panni della figlia di Piero Angela. Titolo della trasmissione: “LE MAGIE DEL SALENTO”, curata da Belen Rarez e condotta da cinque giornaliste alle prese con la storia, la musica popolare, l’archeologia e la gastronomia locale.
“Ecco alle mie spalle la montagna del diavolo, un luogo avvolto dalle suggestioni di misteriose leggende”…

“Santo, ti prego, rallenta… stiamo andando a 180!”
“Tranquilla, è tutto sotto controllo. Devo fare in fretta, altrimenti non riuscirò a girare i prossimi servizi. Alle 14 ho appuntamento a Carovigno e alle 17 a Leuca.”
“Si, ho capito, ma non voglio rimetterci la pelle, intesi?”
E così, puntualmente, accennava una frenata per poi ripartire più veloce di prima.
Io, Santo e la telecamera, a spasso per il Salento, sotto il sole di luglio o sotto il gelo di febbraio, sulle tracce di immagini sacre, di racconti e raccolti della terra, tra contadini dalle mani ruvide e musicisti pizzicati dalla taranta.
“Sei così chiccosa” commentava la Rarez dopo la messa in onda delle puntate, quelle poche volte in cui non piovevano i rimproveri del Grande Capo.

Nella notte dei desideri avrei finalmente accantonato per qualche ora le folli corse, le estenuanti giornate lavorative e le stroncature via sms. Avrei osservato lacrime luminose cadere dal cielo. Salvo imprevisti.
E l’imprevisto, sovente, piomba sulla scrivania con la velocità di un asteroide, quando meno te l’aspetti.
“Luana è in ospedale, dovrai sostituirla nella diretta di Oria”. La fumosa Oria, città medievale che ogni anno a Ferragosto ospita il torneo dei rioni… sfida cavalleresca finalizzata alla conquista del palio e preceduta, a San Lorenzo, dal corteo storico che rievoca i fasti di Federico II.
In un modo o nell’altro, è sempre colpa di Federico II. A nulla valsero le mie suppliche. Trascorsi la notte del 10 agosto tra la folla in delirio per due fantocci reali a cavallo, pescati dalle melodrammatiche fiction del Biscione. Dopo Walter Nudo, reduce dalla vittoria sull’Isola dei Famosi (già celebre per aver interpretato il ruolo di Cupido ai tempi di “Colpo di fulmine”), quell’anno fu il turno di un attore dagli occhi cerulei, di cui francamente non ricordo il nome.

Nella mia testolina scorrevano le immagini di falò e grigliate in riva al mare, di romantici bagni notturni, mentre accanto alla regia mobile sfilavano animali esotici d’ogni genere: elefanti, pappagalli e pitoni gialli, senza dimenticare dame agghindate dalla testa ai piedi, fachiri e giullari di corte.

Fu una notte senza stelle cadenti, costrette a spegnersi sul nascere. Fu così che i desideri più reconditi naufragarono tra la fiumana di gente che aveva invaso i vicoli di Oria, condannandomi ad un San Lorenzo senza la melodia delle onde sulla battigia, amaramente sostituita dal frastuono di trombe medievali. 

martedì 1 luglio 2014

DIMISSIONI CONTAGIOSE


«Libera, finalmente libera». Emma aveva trascorso dieci lunghissimi anni tra le mura di Canale Lombardia, combattendo contro i mulini a vento: un direttore spocchioso, un paio di colleghi senza scrupoli, un numero imprecisato di straordinari non pagati, omicidi da documentare agli orari più improbabili. Tutto scorreva in un caos collaudato e abitudinario, mentre la sua vita andava in frantumi. Relazioni sociali azzerate, a pranzo un panino e, nottetempo, qualche briciola di riposo.
Una mattina d’estate, l’illuminazione. Lo scatto d’orgoglio e coraggio. «E’ ora di cambiare direzione» ordinò alla sua immagine riflessa nello specchio. Picchiettò sulla tastiera del computer, digitando la formula magica. Infilò un tubino colorato e scese di corsa per le scale. Salì in metro per raggiungere Piazza Duomo, sfoggiando un sorriso serafico. L’ufficio postale era poco distante.
«Devo inviare una raccomandata veloce» comunicò con voce decisa allo sportellista.
«E’ per un provino televisivo?» chiese l’impiegato, incuriosito dal destinatario.
«No, mi dimetto!» replicò Emma.
«Evidentemente ha molta fretta, la raccomandata veloce le costerà quasi 10 euro» commentò l’omino delle poste.
«Proprio così, è un gesto liberatorio, sarei disposta a pagare tutto l’oro del mondo» chiosò, tirando fuori la banconota.
«In bocca al lupo, signorina». Emma lasciò l’ufficio postale e a passo spedito si fece largo tra i pochi sfortunati rimasti in città, mentre il caldo milanese diventava sempre più asfissiante.
L’orologio segnava le 10 del primo luglio. Luca attendeva impaziente l’arrivo della collega sbirciando dalla finestra di Corso Buenos Aires. D’un tratto vide sbucare l’agognata sagoma, ignaro della sua decisione.
«Sono esausta, Luca, lascio la redazione. Torno a Lecce».
Il navigato giornalista dall’accento bolognese, che per le vie di Milano aveva rincorso impavidamente politici di ogni specie, impallidì, accasciandosi sulla sedia.
«Non è possibile» biascicò tramortito. «Come farò a portare avanti la baracca da solo? Tra una settimana ho l’aereo per Cuba, come farò, come farò?». Non ci fu alcuna risposta.
Luca ed Emma erano gli ultimi sopravvissuti della redazione milanese, assieme al regista/cameraman/montatore italo-americano, Johnny, uno e trino.
L’estate del 2012 aveva innescato una diaspora tra i cronisti di Corso Buenos Aires. In tre avevano abbandonato la nave, salpando per nuove avventure editoriali. Era solo l’inizio di una lunga stagione di dimissioni a cascata. Un effetto domino senza precedenti. La libertà è contagiosa, come la voglia di ricominciare, di tornare ad essere padroni della propria vita. Dopo il forfait di Emma, nelle settimane successive giunse la notizia di nuove dimissioni dalle sedi periferiche di Como e Pavia.

La giornalista salentina era tornata nella sua terra e in pochi giorni aveva recuperato la serenità persa nei meandri della Padania. Il sole e l’odore del mare l’avevano ritemprata nell’animo, dandole l’opportunità di ricominciare. Johnny la contattava con una certa frequenza, lamentandosi della solita vita del cazzo che era costretto a subire alle dipendenze del Capo.
«Vattene Johnny, cosa aspetti? »
«Al momento non ho alternative, però credo di essere agli sgoccioli»
«Forza amico, bastano pochi grammi di coraggio!»

Bussò alla porta un altro inverno. Milano era imbiancata dalla neve, il Salento vessato da incessanti piogge.
Emma riusciva a sbarcare il lunario grazie ad alcune collaborazioni giornalistiche e con un part-time da addetto stampa. Nel tempo libero leggeva, scriveva e si dedicava all’equilibrio del corpo e della mente.
In primavera la natura si rigenera, per poi raggiungere l’apice nel corso dell’estate. Johnny lo aveva capito. Finalmente. Era giunto il momento di cambiare pelle.
«Emma, sono pronto…mi dimetto» annunciò il cameraman/regista/montatore.
«Buona vita amico, stai facendo la cosa giusta».


“L’informazione non è un hobby”, recitava uno slogan qualche tempo fa. E non c’è crisi che tenga. Il rispetto dei lavoratori è la prima regola. Gli "schiavi", nell’ambito del giornalismo e di qualunque settore professionale, non fanno che alimentare le ambizioni dei padroni. 
Emma e Johnny hanno scelto di essere liberi.

martedì 24 giugno 2014

EDIZIONE STRAORDINARIA: UN TG PER UNA TRENTENNE

Chi di tg ferisce, di tg perisce. Ecco il tg confezionato, un anno fa, da una banda di pazzi in occasione del mio trentesimo. Buona visione!







giovedì 19 giugno 2014

BLUE LAGOON - DIARIO DI MALTA

LE TRE CITTA'
Capitammo nelle grinfie di un tassista indemoniato. In preda alla fretta, il nostro accompagnatore si mise al volante guidando senza criterio per le strade di Sliema. Quando arrivammo a Bugibba baciai l’asfalto. Era notte fonda. La città dormiva. I lampioni disegnavano il profilo di casupole diroccate, consumate dal tempo. Quasi avessero rappresentato, nel secolo scorso, un precario riparo dal fuoco nemico.

Bus maltese

Al risveglio, l’isola di Malta svelò il suo volto. Dai vecchi autobus gialli (oggi fuori uso), Lupin osservava il paesaggio scolpito nelle colline, che un passo alla volta scivolava fino a raggiungere la Bahia di Saint Paul. 


La stessa che avremmo ammirato nei giorni seguenti dalla Torre Rossa, punto di osservazione privilegiato a nord dell’isola.
Saint Agatha Tower
Acqua limpida e sabbia finissima fanno della spiaggia di Mellieha un lembo di terra riservato ai cultori dell’ozio. Eppure alle 14.30, sotto la calura di luglio, incuriosita dalle geometrie e dai colori del santuario che svettava dall’alto, decisi che quella sarebbe stata la tappa successiva del nostro viaggio. Lupin si armò di pazienza, e cercò di mettermi in guardia, consapevole delle mie scarse possibilità fisiche: “Sei sicura di volerci andare adesso? La chiesa può sembrare vicina, ma in realtà bisognerà percorrere almeno due chilometri a piedi, e per di più in salita”.
Saint Paul Bay - Spiaggia di Mellieha (sullo sfondo il santuario)
L’animo da escursionista mi spinse verso l’ardua impresa, e così dopo un tempo indefinito di marcia sotto il sole, ci trovammo faccia a faccia con “Nostra signora di Mellieha”, il santuario dedicato alla Vergine, da sempre meta di pellegrinaggi. 

Io e Lupin formiamo una coppia di pellegrini atipici, poco sensibili al culto religioso, ma affascinati dalle linee architettoniche e dai panorami vista mare/lago. Fianco a fianco abbiamo percorso lunghe maratone in giro per l’Europa, calpestando la neve o agitando ventagli ricamati a mano, a caccia di qualche cupola da immortalare. 

Cadice - Andalusia
Dopo Malta, sarebbe accaduto a Cadice, nell’estate del 2012: camminammo oltre un’ora sospinti dal vento dell’Oceano Atlantico, sulle tracce della cattedrale barocca che domina Costa de la Luz, in Andalusia.

Un edificio barocco molto simile al santuario maltese…

La Valletta, Saint Julian, Paceville, Mdina, Rabat, Victoriosa. Fatta eccezione per il primo giorno, avremmo conquistato l’isoletta a Sud della Sicilia con l’ausilio di un mezzo a quattro ruote.
Con pochi spiccioli, noleggiammo una Picanto color aragosta, con volante sul lato destro. Sì, i maltesi guidano come gli inglesi, a causa della dominazione britannica risalente al 1800.
“Oh my god, questo ci arriva addosso”. Lupin superò l’impaccio iniziale nelle ore successive, affrontando i sorpassi a destra con gran dimestichezza. E però, al rientro in Italia, ebbe un pizzico di difficoltà nel recupero della sua postazione di guida.

Finchè la barca va, lasciala andare… da quella barca che ci portò sul meraviglioso isolotto di Comino sarei scesa dopo un paio minuti, se solo avessi potuto. Ma il desiderio rimase irrealizzato. Nel mio stomaco si scatenò il maremoto. La tramontana non ebbe alcuna pietà e mi flagellò per trenta minuti di fila all’andata, raddoppiando il carico al ritorno. Lo spettacolo della Blue Lagoon ha senz’altro ripagato quelle atroci sofferenze, ma in un’altra vita attenderei la bonaccia prima di ripetere l’esperienza.


Circondata da promontori rocciosi (e dunque riparata dalle raffiche di vento), la laguna è un’oasi cristallina, da esplorare a piedi nudi a contatto con la natura selvaggia. Lupin mi prese in parola…lasciammo la caletta e ci tuffammo in mare per il remake di “Laguna Blu”, il film del 1980 diretto dal regista Randal Kleiser.
Blue Lagoon
Negli abiti succinti di Christopher Atkins e Brooke Shields, raggiungemmo a nuoto l’altro versante della laguna. A poche bracciate dal traguardo, fu Lupin a trascinarmi fino alla riva. Il promontorio era lì davanti a noi. Ci chiese di sfidarlo. In compenso avrebbe donato ai coraggiosi scalatori una delle viste più suggestive dell’arcipelago dei Cavalieri. Attraversammo a piedi nudi i sentieri di terra rossa fino a toccare la cima. Il cuore del Mediterraneo pulsava sfavillante sotto i nostri occhi.

mercoledì 18 giugno 2014

VENGO DOPO IL TG

«Attenzione, in onda!». Il mio viso sbucò sui piccoli schermi del “Grande Salento” in piena pausa pranzo. Il termometro segnava 35 gradi. La regia era bollente. Tasso di umidità: 80%. Il duello tra il climatizzatore e le luci dello studio fu all’ultimo sangue. Vinse la potenza dei fari puntati sul mio mezzobusto.
«Buongiorno, gentili telespettatori. Apriamo il telegiornale con una notizia di cronaca…»
L’esordio live da anchor-woman arrivò dopo una serie di tg registrati nel mese di luglio, bypassati dal giudizio del direttore e dai consigli dei telespettatori (una platea variegata composta da colleghi, famigliari, amici e vicini di casa): braccia meno rigide - ombretto meno carico - sorridi di più - sei troppo seria. «Perbacco, Aldo Grasso sarebbe stato meno critico!».
Tuttavia superai l’esame. «Sarai il nuovo volto di Telesette» si complimentò il mio capo. D’altronde qualcuno avrebbe dovuto sostituire la collega in maternità. Quel qualcuno ero io. Trascorsi l’estate conducendo telegiornali nella redazione di Brindisi, soffocata dall’obbligo della giacca, ritenuta obsoleta persino in Rai. Sotto il bancone, gonna di lino e sandali.
Di lì a poco avrei avuto un’ulteriore possibilità, camuffata da promozione. «Il Presidente ti vuole al tg delle 23» annunciò solennemente la segretaria. Vale a dire tg interprovinciale, che racchiude le principali notizie di Lecce, Brindisi e Taranto, trasmesso dalla sede centrale, un moderno edificio costruito pochi anni prima nel centro storico del capoluogo barocco. 
Consultai frettolosamente l’orologio: erano le 18 dell’ultimo sabato d’agosto. La data che sul calendario coincide con il clou dei festeggiamenti dei Santi Giusto, Oronzo e Fortunato. Otto volante e fuochi d’artificio. «A mezzanotte potrò raggiungere il resto della ciurma» pensai. Accetto!
Il tranello si rivelò in tutta la sua meschinità nelle ore successive. Il tg sarebbe andato in onda al termine di una lunga diretta dedicata al bel canto. “Magliano ti amo” (questo il titolo della kermesse lirica) determinò un fuso orario di circa due ore sui miei programmi. Senza alcun preavviso. L’ansia cresceva minuto dopo minuto, insieme alla rabbia scaturita dall’inganno. All’1.35 la sigla mi accompagnò verso il primo telegiornale notturno, con picchi di auditel che, considerato l’orario, la stagione, e lo spettacolo pirotecnico in onore dei santi patroni, sfioravano il 5%.

«Con la conduzione del tg sei in una botte di ferro» ripeteva Giulio, con aria rassicurante. Era il mio compagno di sventure professionali, di andate e ritorni da Lecce a Brindisi. Telecamera in spalla e spirito di servizio, mai sfociato però nel coraggio del reporter d’assalto. Per questo si guadagnò l’appellativo di “Cuor di leone”, nella fattispecie quando, pizzicato da un losco figuro durante le riprese della scena del crimine, addossò la colpa alla giornalista che lo affiancava. «Che ci fai qui?  getta la telecamera» urlò l’incredibile Hulk. «Ho solo eseguito i suoi ordini» replicò intimorito Giulio, puntando il dito contro la collega mentre sgattaiolava in macchina pronto a fuggire dal peggiore dei suoi incubi. Tornarono in redazione intatti, senza nemmeno un graffio. «Mai più, mai più, io sono un regista» cantilenava Giulio.  
A differenza del temerario Commissario Locisto, Cuor di Leone preferiva stare alla larga da situazioni pericolose e potenzialmente dolorose. La sua vita era di per sé movimentata, a causa delle vicissitudini amorose che lo portavano non di rado su curve insidiose. Nel confessionale a quattro ruote, Giulio si confidava e chiedeva consigli. In alcune occasioni riuscivo a confezionare risposte sensate, rapite dal vento, altre volte rimanevo in silenzio mentre si sfogava con lunghi assoli esistenziali. “Giuliò, c’est la vie” chiosavo in francese, prima di esplodere in una fragorosa risata.
Il francese e il dialetto salentino servivano ad ammazzare i tempi morti imposti dai tragitti lavorativi e ad esorcizzare i malesseri interiori. I dialoghi improvvisati en français si alternavano alle canzoni di Biagio Antonacci reintepretate in vernacolo. Strategie di sopravvivenza, che hanno cementato una sincera amicizia.


Il mondo della televisione è popolato da singolari personaggi. E’ come vivere nei panni di Alice nel Paese delle Meraviglie. Il Bianconiglio, nel mio universo mediatico, era rappresentato da “Lepre”, l’operatore televisivo più “rapido” del mondo. Calma e lentezza le sue doti principali, insieme al senso di protezione che solo un buon padre riesce a trasmettere. Piansi il giorno in cui andò via. Per lui si chiusero le porte della televisione e si aprirono quelle dell’azienda di famiglia. Più grate e sicure. 
Piansi poche ore prima, il giorno in cui il “Buon Manina” ci lasciò per sempre, una notte di settembre, dopo un tragico incidente stradale.

venerdì 13 giugno 2014

L'AMORE AI TEMPI DI CERRATE

Sulla facciata sono visibili i segni del tempo. Come le rughe di una donna.
Cerrate profuma di storia e leggenda. Nella fragilità delle sue crepe si cela l’incuria di chi per anni ha vissuto ad occhi chiusi, ignorando uno dei tesori più preziosi dell’arte romanica. L’abbazia è il regno del silenzio, è un luogo misterioso.
Dalla balaustra del pozzo, la sirena dalla doppia coda, simbolo di fertilità, ammalia con il suo sguardo i visitatori, evocando canti mitologici. La chiesa, il porticato, il museo della civiltà popolare torneranno a splendere sulle orme della cerbiatta inseguita da re Tancredi di Altavilla.
Cerrate risorgerà grazie al FAI, Fondo Ambiente Italiano, dal 2012 nuovo custode dell’abbazia che corre lungo la via del mare, tra le campagne di Squinzano e Trepuzzi, e che ha già avuto la forza di rinascere nel 1965, attraverso la ristrutturazione diretta dall’architetto Franco Minissi, dopo secoli di abbandono, seguiti al feroce saccheggio dei turchi.
Era il 1711. Nella notte del 20 settembre, una banda di pirati sbarcata a Torre Specchiolla raggiunse  Cerrate, saccheggiò la chiesa, sfregiò l’effigie della Vergine, per poi depredare le vicine masserie, seminando il terrore tra gli abitanti.
L’eco della disperazione risuona ancora oggi. Risuonano pure le note di una marcia nuziale. Sul sagrato, un formicaio umano attende la sposa. Le fa strada il padre fino all’altare. Non indossa l’abito bianco, ma una morbida veste verde acqua. «Il bianco è per le vergini, è il colore della purezza. La creatura che porti in grembo è stata concepita prima delle nozze».  Negli anni ‘80 il “buon costume” di matrice cattolica era osservato con estremo rigore.

Aurora e Angelo si giurarono amore eterno tra le mura dell’abbazia costruita nel XII secolo. Le loro promesse divennero granelli di una storia quasi millenaria.
Il viso dello sposo era rigato dalle lacrime: Angelo ripensò al padre che aveva perso in tenera età, del quale non riusciva a ricordare i tratti somatici, né il timbro della voce. L’unica immagine era quella di una foto in bianco e nero, che lo ritraeva in giacca e cravatta.

Fu un matrimonio semplice, senza festeggiamenti. Qualche scatto dopo la cerimonia religiosa e un pranzo improvvisato a casa dei parenti, per pochi intimi. Brodo caldo per suggellare il fatidico sì.

Sarei nata cinque mesi dopo. Cinque anni e mezzo trascorsi da figlia unica, prima dell’arrivo di mio fratello. Tornando da scuola vidi il fiocco azzurro sul portone di casa. Sorrisi. Bramavo dalla voglia di vederlo, ma soprattutto di decidere il suo nome. In qualità di sorella maggiore sarebbe stata una mia prerogativa.


Lo avevo “macchinato” da tempo. Appena giunsi in ospedale lo comunicai ai miei genitori, con la stessa sacralità dell’habemus papam. «Si chiamerà Gianluca» sentenziai.
Povera illusa! Non avevo fatto i conti con il cervello degli adulti di sesso maschile. In particolare quello di mio padre e del suo amico. Lungo il tragitto verso l’anagrafe scombinarono il mio piano. Tra una chiacchiera e l’altra bocciarono il nome che avevo scelto e andarono alla ricerca di un altro nome composto. «Piergiorgio» pensarono. «No, troppe “erre”, meglio Pierpaolo» convennero dopo qualche minuto. L’impiegato fece il resto, cestinando definitivamente il mio parere.

La notizia mi sconvolse. Piansi nel corridoio dell’ospedale. Riuscii a calmarmi soltanto quando presi tra le braccia il neonato più bello che avessi mai visto. Aveva il viso perfetto, morbido e rotondo, ma stentava ad aprire gli occhi. Li tenne chiusi per giorni, suscitando la preoccupazione di alcuni parenti. Mia madre era serena. 
Quando Pierpaolo aprì gli occhi, fu meraviglia.

martedì 3 giugno 2014

PARIGI E LA NEVE

Lo stupore della neve ci colse a bassa quota, in fase di atterraggio.
La gente del Sud è abituata a convivere con la luce del sole, con l’andirivieni del mare, conosce bene la pioggia e il vento, ma alle latitudini del Mediterraneo la neve è considerata una rara espressione atmosferica, un’eccezione.
E’ un’emozione inedita che ho avuto la fortuna di incrociare un paio di volte: la prima da bambina, la seconda intorno ai 18 anni. Avevo lasciato la sede dell’Università prima che il cielo ci incantasse con una nevicata liberatoria, spargendo sulle campagne un soffice manto bianco che cresceva di ora in ora. Nevicò tutto il giorno, fino a notte fonda. La mattina seguente le scuole rimasero chiuse. Ricordo le automobili parcheggiate ai bordi delle strade e frenetiche mani da bambino intente a sbriciolare blocchi di neve, trasformati all’occorrenza in munizioni che sarebbero servite per assicurarsi la vittoria di una “battaglia” senza precedenti.
Trepuzzi-Largo Margherita (Dicembre 2001)
Imbacuccata come un’autentica fanciulla delle montagne, raggiunsi la piazza del paese voltandomi di tanto in tanto, incuriosita dallo spettacolo delle orme lasciate dai miei piedi. Ero felice.
Anni dopo avrei rivisto la neve, lontano dalla mia terra.

Parigi era scintillante. La osservavo (dall’alto) distendersi a perdita d’occhio con fare elegante, tra il luccichio dei suoi notturni e il candore della neve che era caduta in abbondanza per 72 ore di fila.
La bufera aveva paralizzato l’Europa del Nord, bloccando per tre giorni l’aeroporto Charles De Gaulle. Nonostante il notevole ritardo, il 7 gennaio 2009 salii a bordo del velivolo che mi catapultò nella Ville Lumière. Dall’oblò individuai l’Arc de Triomphe e la Tour Eiffel… La città più romantica del globo terrestre era pronta ad accogliermi: le tesi la mano, noncurante della temperatura polare e nonostante le insidie nascoste lungo le vie di Parigi, trasformate dal gelo in chilometriche lastre di ghiaccio.

Non ero sola, per fortuna. A vegliare su di me c’era l’inseparabile compagno di viaggio  e di vita, avvezzo alle tempeste del bipolarismo femminile e ai miei malanni itineranti.
Parigi - Gennaio 2009
Monsieur Lupin ha uno spirito di adattamento superiore alla media, in grado di compensare la mia scarsa propensione al cambiamento. Per contro, la sottoscritta incarna nell’80% dei casi lo stereotipo dell’italiano medio che nutre un amore viscerale per il suo letto, per la toilette dotata di bidet, per la pizza margherita e per il risotto alla marinara. Dico no all’expérimentation culinaire, alle zuppette a base di cipolla propinate dagli chef d’Oltralpe e agli scomodissimi cuscini francesi a forma cilindrica.
Tutto sommato, nonostante Gerard Depardieu (reo di aver sfidato la movida leccese) e nonostante il furto della Gioconda, j’àdore la France e il suo raffinato idioma. Una liaison alimentata da ragioni genealogiche e culturali.

La meno rilevante riguarda la mia formazione scolastica e nello specifico il triennio delle medie. “Booonjourrrr, booon boonjour. Ripetete bonjour facendo attenzione alla pronuncia nasale”. Fu questo il biglietto da visita della docente di francese che aveva insegnato l’ABC della nobile lingua a intere generazioni, suscitando risatine tra i banchi. “Scrivete Je m’appelle Nicolas fino a riempire cinque pagine”. L’ho scritto fino alla nausea, corredato da indirizzo, luogo, orario e situazione metereologica. Poi arrivò la coniugazione dei verbi, “da imparare a memoria come il 5 Maggio”. 
Il perfezionismo didattico provocò una forma di allergia dilagante sui 2/3 della classe. Il girone degli svogliati guardava in cagnesco il girone dei secchioni che manifestavano interesse verso una lingua diversa. Ero molto affascinata dal francese, anche per l’orgoglio di avere uno zio emigrato in Francia, che viveva da anni nelle vicinanze di Parigi.

Aveva imparato il francese nel giro di pochi mesi, ma non avrebbe mai dimenticato la lingua del suo paese d’origine. “Il mio eterno riposo sarà in Italia” ammoniva rivolgendosi ai parenti dalla erre moscia. In preda alla rabbia imprecava nel suo dialetto, e proseguiva nella sua arringa alternando l’italiano al francese. Zio T. era un concentrato di tenerezza e comicità, che al momento opportuno metteva tutti in riga con il piglio patriarcale tipico degli uomini meridionali.
Tour Eiffel - Estate 1992

“Zio, vorrei un panino al pomodoro”, sussurrai all’ombra della Tour Eiffel durante la mia prima vacanza all’estero. Avevo nove anni e la mia irruente italianità pareva già matura.
Zio T. spalancò gli occhi e sorrise a crepapelle: “Ma qui vendono baguette avec beurre et jambon, non sei in Puglia”. Rassegnata, azzannai la croccante baguette, prima di salire sull’ascensore che ci avrebbe portato in cima alla torre.

A quei tempi l’aereo era un lusso. Arrivai in Francia sul finire dell’estate a bordo di un “Pony Express” partito dalla stazione di Brindisi. Viaggiavo in compagnia di due zii e di due cugini. Impiegammo 26 ore per giungere a destinazione: una traversata oceanica, permeata dal cattivo odore dei sedili in pelle della vecchia locomotiva, e intervallata da scorci di paesaggi mai visti prima d’allora: su tutti il Monte Bianco.


Era solo l’incipit delle mie avventure da “giramondo”.

venerdì 30 maggio 2014

LE IMPRESSIONI DELLA LUNA

Margot ha paura del buio. E’ terrorizzata dall’oscurità, dall’incognita del nulla. Dall’oltre. Nelle sere d’estate spalanca le finestre per catturare il bagliore dei lampioni e della luna che danza sui tetti della città. Certe sere la luna si inabissa cedendo il proscenio alle stelle, oppure si nasconde dietro grappoli di nuvole, poi riappare…uno spicchio dopo l’altro, fino a brillare come una perla d’acqua di mare.

Margot ha trascorso notti senza fine a scrutarla, mentre i minuti ticchettavano sull’involucro della mente, scivolando verso le ore. E non c’era pace. Solo il tormento del mancato riposo. L’insonnia le mordeva lo stomaco, le tirava i capelli, lacerando la sua lucidità. Avrebbe voluto sprofondare nell’oblio, spazzare via i pensieri o addirittura fare a pezzi la memoria, fonte del disagio interiore che non la lasciava vivere. Ma cos’è un essere umano senza memoria?  Solo una sagoma, un’ombra fugace.

Non c’è black-out che tenga. L’inconscio sussurra, fa tornare a galla scorie d’esistenza che avevamo rimosso, chiuse nei cassetti del passato. La luna le indicò la via: “Se vuoi salvarti, torna indietro”. La consapevolezza sarebbe stata, dunque, la chiave di volta.

Quella notte Margot sfidò le sue paure, dichiarò guerra ai demoni dello spirito. Era sopravvissuta in punta di piedi, rimanendo in silenzio, senza mai urlare. Ben presto avrebbe imparato a sputare la rabbia addomesticata nel torrente della risalita.

mercoledì 28 maggio 2014

IL LICEO (SCIENTIFICO) E' PER SEMPRE

L'hobby più gettonato della sezione G (1996/2001) era riportare nero su bianco gli strafalcioni dei professori. A pari punti con il passatempo degli sfottò indirizzati al “Forrest Gump” del disegno: A. A., un tempo temuto e rispettato dai suoi alunni e di colpo diventato il compagno di banco "ideale". Quello da prendere in giro, senza tregua.
Dopo anni di tirannia, la sua eccessiva severità venne messa al tappeto da un gruppo di angeli vendicatori che in principio si accanirono sull'auto del bersaglio, per poi dare libero sfogo all'indole collettiva da Karate Kid. Un riprovevole episodio di violenza, che consegnò ai posteri un personaggio di grande spessore ludico-didattico.
In sua presenza, l’ora di disegno coincideva con il cazzeggio, con la ricreazione prolungata, con le interviste a sfondo sessuale (n.b. lo studente interroga il docente, "estorcendo" confessioni sulla propria vita privata). In quarto superiore il preside decise di punirci, privandoci dell'ora d'aria. Il nostro idolo fu sostituito con un vero insegnante di disegno tecnico e storia dell'arte, munito di squadre e fogli acetati. Sprofondammo nell'abisso del 41 bis. L'anno successivo, per intercessione divina, ci concessero la grazia. A.A. tornò tra le nostre braccia, e fu di nuovo festa.

I perpetrati oltraggi alla cultura, seviziata da docenti di filosofia, matematica e biologia, andarono a comporre il corposo manoscritto: “Orrori in cattedra”. Inedito, ma sacro come la Bibbia.
Nella top ten comparivano le perle di saggezza di una delle più grandi filosofe contemporanee, il cui albero genealogico sembrerebbe essere apparentato con alcuni discendenti illegittimi di Aristotele, approdati in Magna Grecia intorno al 760 d.C. Le dava gran filo da torcere la prof. di matematica, particolarmente apprezzata per le sue abilità cognitive e per il “minuscolo” neo  incastonato sul mento, autentico capolavoro della natura dipinto in sopra rilievo.

Le due candidate al primo premio lottarono stoicamente. “Come osi sfidarmi?” ruggì la peripatetica* (disambiguazione: il termine è usato in riferimento ai membri di una delle più grandi scuole filosofiche greche; da non confondere con l’aggettivo dispregiativo che indica le prostitute di strada) puntando il dito contro il genio della matematica, ingaggiato dal Provveditorato agli studi per prepararci agli esami di maturità.

“Professoressa, mi scusi, come posso risolvere l’ultimo passaggio di questo problema?” le domandai sottovoce durante la seconda prova d’esame.  I pizzini infilati nella cartucciera erano serviti a ben poco, e in preda alla disperazione mi rivolsi a lei, nell’estremo tentativo di salvarmi da quella giungla di numeri.
“C’è un teorema che potrebbe aiutarti, ma consulta il manabile…non lo ricordo alla perfezione” mi rispose con un sorriso intontito, pronunciando testuali parole in dialetto salentino.

Perché? Perché  l’ ho fatto? Perché ho scelto il liceo scientifico? Me lo chiesi fino all’ultimo giorno di scuola. Odiavo la matematica, la fisica, corredo di cifre e segni incomprensibili agli occhi di un qualsiasi essere umano affascinato dalle parole, dalla letteratura e dal latino. Lingua morta, ma senz’altro materia meno ostile.


Lo feci per non abbandonare un paio di compagne delle medie, un po’ per moda, mai per convinzione. Mi trovai in un covo di matematici in erba, la metà dei quali oggi esercita la professione di ingegnere o medico. Ecco, appunto. Io sono una scribacchina ed era facile intuire sin dalle elementari che non avrei seguito le orme della Montalcini. 

domenica 25 maggio 2014

LA “CRISTOTECA”: CANTA E BALLA CON GESU’

Prima di Papa Francesco, molto prima di Suor  Cristina (la monaca canterina di The Voice), Dio creò Don Leandro, il chierichetto ordinato sacerdote nella Valle della Cupa. Aveva 20 anni appena quando promise di dedicare la sua vita al prossimo, tenendolo per mano lungo il cammino segnato due millenni orsono da Gesù. Nessuno, però, avrebbe mai potuto immaginare l’originalità della sua missione. 
Don Leandro è un perfetto organizzatore d’eventi, uno show man, un intrattenitore: nel suo Dna oltre alla fede, c’è lo spettacolo. Per questo è osannato come una popstar dai fedeli della parrocchia. 
Tra un Salve Regina e un Padre Nostro, il buon pastore prepara il cartellone estivo del quartiere, contatta i gruppi da far esibire, e a ridosso delle festività Natalizie pianifica i “casting” per il presepe vivente. Sull’agenda personale non mancano, naturalmente, gli itinerari turistici che spaziano dal Capo di Leuca fino al Monte Bianco, sponsorizzati attraverso il "volantinaggio selvaggio" sui pali della pubblica illuminazione e sui muretti a secco che delimitano il sentiero del fitness. 
Dimenticavo, all’elenco delle sue innumerevoli attività occorre aggiungere la sfilza di ricorrenze religiose e non, celebrate con processioni agli orari più insoliti, fiere, mercatini, cortei bandistici, e giochi pirotecnici…tanti, tantissimi fuochi d’artificio.
Don Leandro è conosciuto come uno dei precursori italiani della “Cristoteca”, la tendenza di pregare ballando, nata qualche anno fa a Rio de Janeiro. Le parole del Vangelo scorrono su maxischermi giganti a ritmo di house music, hip hop, tecno, mentre in consolle si alternano dj con la tonaca. Bisogna ammetterlo…La Chiesa, ne sa una più del diavolo!

Dal Brasile al Salento, il passo è breve: ecco trasformato il sagrato della parrocchia in una Cristoteca a cielo aperto. Nelle sere d’estate, luci psichedeliche brillano sulla Corrida di Don Leandro & company, creando la giusta atmosfera per interminabili maratone musicali che evocano la grandezza di Woodstock. 

E’ mezzanotte passata. Domani la mia sveglia suonerà alle 6.30. Ho tanto sonno, ma i decibel della Cristoteca sono alle stelle. Sul palco si alternano una decina di giovani musicisti: è il turno di un gruppo reggae (incredibile, Marja sul sagrato della Chiesa!). Amo il reggae, ma sono stanca e voglio dormire. Lo stesso dicasi per mia cugina, che da giorni prova a studiare coi tappi alle orecchie…abita a due passi da questo luogo di culto surreale, oramai provata dal susseguirsi di rave party cattolici.
Se da un lato Don Leandro può contare su uno stuolo di fan credenti, dall’altra i suoi “detrattori”, per lo più atei-agnostici, implorano una qualsiasi entità superiore pur di mettere fine alla tortura di concerti e veglie danzanti dal tramonto all’alba.

E' proprio vero: il passato è il tempio dei rimpianti. Un tempo c’erano le soavi note di preziosi organi in argento,  le voci bianche di cori angelici impegnati nell’esecuzione dell’Ave Maria di Schubert…oggi va di moda la “Cristoteca”: cosa aspetti? Canta e balla con Gesù, oppure datti all’induismo!