Chi di tg ferisce, di tg perisce. Ecco il tg confezionato, un anno fa, da una banda di pazzi in occasione del mio trentesimo. Buona visione!
Cosa nasconde il mondo dell'informazione? E chi sono i suoi abitanti? C'è vita oltre il piccolo schermo, il web e la carta stampata? I giornalisti hanno mai avuto un'infanzia? La voce del giornalaio cercherà di rispondere a questi ed altri interrogativi. N.B. OGNI RIFERIMENTO A PERSONE O COSE E' PURAMENTE CASUALE.
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martedì 24 giugno 2014
giovedì 19 giugno 2014
BLUE LAGOON - DIARIO DI MALTA
LE TRE CITTA' |
Capitammo nelle grinfie di un
tassista indemoniato. In preda alla fretta, il nostro accompagnatore si mise al
volante guidando senza criterio per le strade di Sliema. Quando arrivammo a
Bugibba baciai l’asfalto. Era notte fonda. La città dormiva. I lampioni disegnavano
il profilo di casupole diroccate, consumate dal tempo. Quasi avessero
rappresentato, nel secolo scorso, un precario riparo dal fuoco nemico.
Bus maltese |
Al risveglio, l’isola di Malta
svelò il suo volto. Dai vecchi autobus gialli (oggi fuori uso), Lupin osservava
il paesaggio scolpito nelle colline, che un passo alla volta scivolava fino a
raggiungere la Bahia
di Saint Paul.
La stessa che avremmo ammirato nei giorni seguenti dalla Torre
Rossa, punto di osservazione privilegiato a nord dell’isola.
Saint Agatha Tower |
Acqua limpida e sabbia finissima fanno della spiaggia di Mellieha un lembo di terra riservato ai cultori
dell’ozio. Eppure alle 14.30, sotto la calura di luglio, incuriosita dalle
geometrie e dai colori del santuario che svettava dall’alto, decisi che quella
sarebbe stata la tappa successiva del nostro viaggio. Lupin si armò di
pazienza, e cercò di mettermi in guardia, consapevole delle mie scarse
possibilità fisiche: “Sei sicura di volerci andare adesso? La chiesa può sembrare
vicina, ma in realtà bisognerà percorrere almeno due chilometri a piedi, e per
di più in salita”.
Saint Paul Bay - Spiaggia di Mellieha (sullo sfondo il santuario) |
L’animo da escursionista mi
spinse verso l’ardua impresa, e così dopo un tempo indefinito di marcia sotto
il sole, ci trovammo faccia a faccia con “Nostra signora di Mellieha”, il santuario
dedicato alla Vergine, da sempre meta di pellegrinaggi.
Io e Lupin formiamo una coppia di pellegrini atipici, poco sensibili al culto religioso, ma affascinati dalle linee architettoniche e dai panorami vista mare/lago. Fianco a fianco abbiamo percorso lunghe maratone in giro per l’Europa, calpestando la neve o agitando ventagli ricamati a mano, a caccia di qualche cupola da immortalare.
Cadice - Andalusia |
Dopo
Malta, sarebbe accaduto a Cadice, nell’estate del 2012: camminammo oltre un’ora
sospinti dal vento dell’Oceano Atlantico, sulle tracce della cattedrale barocca
che domina Costa de la Luz ,
in Andalusia.
“Oh my god, questo ci arriva
addosso”. Lupin superò l’impaccio iniziale nelle ore successive, affrontando i
sorpassi a destra con gran dimestichezza. E però, al rientro in Italia, ebbe un
pizzico di difficoltà nel recupero della sua postazione di guida.
Finchè la barca va, lasciala
andare… da quella barca che ci portò sul meraviglioso isolotto di Comino sarei
scesa dopo un paio minuti, se solo avessi potuto. Ma il desiderio rimase irrealizzato. Nel mio stomaco
si scatenò il maremoto. La tramontana non ebbe alcuna pietà e mi flagellò per
trenta minuti di fila all’andata, raddoppiando il carico al ritorno. Lo
spettacolo della Blue Lagoon ha senz’altro ripagato quelle atroci sofferenze,
ma in un’altra vita attenderei la bonaccia prima di ripetere l’esperienza.
Circondata da promontori rocciosi
(e dunque riparata dalle raffiche di vento), la laguna è un’oasi cristallina,
da esplorare a piedi nudi a contatto con la natura selvaggia. Lupin mi prese in
parola…lasciammo la caletta e ci tuffammo in mare per il remake di “Laguna
Blu”, il film del 1980 diretto dal regista Randal Kleiser.
Negli abiti succinti
di Christopher Atkins e Brooke Shields, raggiungemmo a nuoto l’altro versante
della laguna. A poche bracciate dal traguardo, fu Lupin a trascinarmi fino alla
riva. Il promontorio era lì davanti a noi. Ci chiese di sfidarlo. In compenso avrebbe donato ai coraggiosi scalatori una delle viste più suggestive dell’arcipelago dei Cavalieri.
Attraversammo a piedi nudi i sentieri di terra rossa fino a toccare la cima. Il
cuore del Mediterraneo pulsava sfavillante sotto i nostri occhi.
Blue Lagoon |
mercoledì 18 giugno 2014
VENGO DOPO IL TG
«Attenzione, in onda!». Il mio
viso sbucò sui piccoli schermi del “Grande Salento” in piena pausa pranzo. Il
termometro segnava 35 gradi. La regia era bollente. Tasso di umidità: 80%. Il
duello tra il climatizzatore e le luci dello studio fu all’ultimo sangue. Vinse
la potenza dei fari puntati sul mio mezzobusto.
«Buongiorno, gentili
telespettatori. Apriamo il telegiornale con una notizia di cronaca…»
L’esordio live da anchor-woman
arrivò dopo una serie di tg registrati nel mese di luglio, bypassati dal
giudizio del direttore e dai consigli dei telespettatori (una platea variegata
composta da colleghi, famigliari, amici e vicini di casa): braccia meno rigide
- ombretto meno carico - sorridi di più - sei troppo seria. «Perbacco, Aldo
Grasso sarebbe stato meno critico!».
Tuttavia superai l’esame. «Sarai
il nuovo volto di Telesette» si complimentò il mio capo. D’altronde qualcuno
avrebbe dovuto sostituire la collega in maternità. Quel qualcuno ero io.
Trascorsi l’estate conducendo telegiornali nella redazione di Brindisi,
soffocata dall’obbligo della giacca, ritenuta obsoleta persino in Rai. Sotto il
bancone, gonna di lino e sandali.
Di lì a poco avrei avuto
un’ulteriore possibilità, camuffata da promozione. «Il Presidente ti vuole al
tg delle 23» annunciò solennemente la segretaria. Vale a dire tg
interprovinciale, che racchiude le principali notizie di Lecce, Brindisi e
Taranto, trasmesso dalla sede centrale, un moderno edificio costruito pochi
anni prima nel centro storico del capoluogo barocco.
Consultai frettolosamente
l’orologio: erano le 18 dell’ultimo sabato d’agosto. La data che sul calendario
coincide con il clou dei festeggiamenti dei Santi Giusto, Oronzo e Fortunato.
Otto volante e fuochi d’artificio. «A mezzanotte potrò raggiungere il resto
della ciurma» pensai. Accetto!
Il tranello si rivelò in tutta la
sua meschinità nelle ore successive. Il tg sarebbe andato in onda al termine di
una lunga diretta dedicata al bel canto. “Magliano
ti amo” (questo il titolo della kermesse lirica) determinò un fuso orario
di circa due ore sui miei programmi. Senza alcun preavviso. L’ansia cresceva
minuto dopo minuto, insieme alla rabbia scaturita dall’inganno. All’1.35 la
sigla mi accompagnò verso il primo telegiornale notturno, con picchi di auditel
che, considerato l’orario, la stagione, e lo spettacolo pirotecnico in onore dei
santi patroni, sfioravano il 5%.
«Con la conduzione del tg sei in
una botte di ferro» ripeteva Giulio, con aria rassicurante. Era il mio compagno
di sventure professionali, di andate e ritorni da Lecce a Brindisi. Telecamera
in spalla e spirito di servizio, mai sfociato però nel coraggio del reporter
d’assalto. Per questo si guadagnò l’appellativo di “Cuor di leone”, nella
fattispecie quando, pizzicato da un losco figuro durante le riprese della scena
del crimine, addossò la colpa alla giornalista che lo affiancava. «Che ci fai
qui? getta la telecamera» urlò l’incredibile
Hulk. «Ho solo eseguito i suoi ordini» replicò intimorito Giulio, puntando il
dito contro la collega mentre sgattaiolava in macchina pronto a fuggire dal
peggiore dei suoi incubi. Tornarono in redazione intatti, senza nemmeno un
graffio. «Mai più, mai più, io sono un regista» cantilenava Giulio.
A differenza del temerario Commissario
Locisto, Cuor di Leone preferiva stare alla larga da situazioni pericolose e
potenzialmente dolorose. La sua vita era di per sé movimentata, a causa delle
vicissitudini amorose che lo portavano non di rado su curve insidiose. Nel
confessionale a quattro ruote, Giulio si confidava e chiedeva consigli. In
alcune occasioni riuscivo a confezionare risposte sensate, rapite dal vento, altre
volte rimanevo in silenzio mentre si sfogava con lunghi assoli esistenziali. “Giuliò, c’est la vie” chiosavo in
francese, prima di esplodere in una fragorosa risata.
Il francese e il dialetto
salentino servivano ad ammazzare i tempi morti imposti dai tragitti lavorativi
e ad esorcizzare i malesseri interiori. I dialoghi improvvisati en français si alternavano alle canzoni
di Biagio Antonacci reintepretate in vernacolo. Strategie di sopravvivenza, che
hanno cementato una sincera amicizia.
Il mondo della televisione è
popolato da singolari personaggi. E’ come vivere nei panni di Alice nel Paese
delle Meraviglie. Il Bianconiglio, nel mio universo mediatico, era
rappresentato da “Lepre”, l’operatore televisivo più “rapido” del mondo. Calma
e lentezza le sue doti principali, insieme al senso di protezione che solo un
buon padre riesce a trasmettere. Piansi il giorno in cui andò via. Per lui si
chiusero le porte della televisione e si aprirono quelle dell’azienda di
famiglia. Più grate e sicure.
Piansi poche ore prima, il giorno in cui il “Buon
Manina” ci lasciò per sempre, una notte di settembre, dopo un tragico incidente
stradale.
venerdì 13 giugno 2014
L'AMORE AI TEMPI DI CERRATE
Cerrate profuma di storia e
leggenda. Nella fragilità delle sue crepe si cela l’incuria di chi per anni ha
vissuto ad occhi chiusi, ignorando uno dei tesori più preziosi dell’arte
romanica. L’abbazia è il regno del silenzio, è un luogo misterioso.
Dalla balaustra del pozzo, la
sirena dalla doppia coda, simbolo di fertilità, ammalia con il suo sguardo i
visitatori, evocando canti mitologici. La chiesa, il porticato, il museo
della civiltà popolare torneranno a splendere sulle orme della cerbiatta
inseguita da re Tancredi di Altavilla.
Cerrate risorgerà grazie al FAI,
Fondo Ambiente Italiano, dal 2012 nuovo custode dell’abbazia che corre lungo la
via del mare, tra le campagne di Squinzano e Trepuzzi, e che ha già avuto la
forza di rinascere nel 1965, attraverso la ristrutturazione diretta
dall’architetto Franco Minissi, dopo secoli di abbandono, seguiti al feroce
saccheggio dei turchi.
Era il 1711. Nella notte del 20
settembre, una banda di pirati sbarcata a Torre Specchiolla raggiunse Cerrate, saccheggiò la chiesa, sfregiò
l’effigie della Vergine, per poi depredare le vicine masserie, seminando il
terrore tra gli abitanti.
L’eco della disperazione risuona
ancora oggi. Risuonano pure le note di una marcia nuziale. Sul sagrato, un
formicaio umano attende la sposa. Le fa strada il padre fino all’altare. Non
indossa l’abito bianco, ma una morbida veste verde acqua. «Il bianco è per le
vergini, è il colore della purezza. La creatura che porti in grembo è stata concepita
prima delle nozze». Negli anni ‘80 il
“buon costume” di matrice cattolica era osservato con estremo rigore.
Aurora e Angelo si giurarono amore
eterno tra le mura dell’abbazia costruita nel XII secolo. Le loro promesse
divennero granelli di una storia quasi millenaria.
Il viso dello sposo era rigato
dalle lacrime: Angelo ripensò al padre che aveva perso in tenera età, del quale
non riusciva a ricordare i tratti somatici, né il timbro della voce. L’unica
immagine era quella di una foto in bianco e nero, che lo ritraeva in giacca e
cravatta.
Fu un matrimonio semplice, senza
festeggiamenti. Qualche scatto dopo la cerimonia religiosa e un pranzo
improvvisato a casa dei parenti, per pochi intimi. Brodo caldo per suggellare
il fatidico sì.
Sarei nata cinque mesi dopo. Cinque
anni e mezzo trascorsi da figlia unica, prima dell’arrivo di mio fratello.
Tornando da scuola vidi il fiocco azzurro sul portone di casa. Sorrisi. Bramavo
dalla voglia di vederlo, ma soprattutto di decidere il suo nome. In qualità di
sorella maggiore sarebbe stata una mia prerogativa.
Lo avevo “macchinato” da tempo. Appena giunsi in ospedale lo comunicai ai miei genitori, con la stessa sacralità dell’habemus papam. «Si chiamerà Gianluca» sentenziai.
Lo avevo “macchinato” da tempo. Appena giunsi in ospedale lo comunicai ai miei genitori, con la stessa sacralità dell’habemus papam. «Si chiamerà Gianluca» sentenziai.
Povera illusa! Non avevo fatto i
conti con il cervello degli adulti di sesso maschile. In particolare quello di
mio padre e del suo amico. Lungo il tragitto verso l’anagrafe scombinarono il
mio piano. Tra una chiacchiera e l’altra bocciarono il nome che avevo scelto e
andarono alla ricerca di un altro nome composto. «Piergiorgio» pensarono. «No,
troppe “erre”, meglio Pierpaolo» convennero dopo qualche minuto. L’impiegato
fece il resto, cestinando definitivamente il mio parere.
La notizia mi sconvolse. Piansi
nel corridoio dell’ospedale. Riuscii a calmarmi soltanto quando presi tra le
braccia il neonato più bello che avessi mai visto. Aveva il viso perfetto,
morbido e rotondo, ma stentava ad aprire gli occhi. Li tenne chiusi per giorni,
suscitando la preoccupazione di alcuni parenti. Mia madre era serena.
Quando
Pierpaolo aprì gli occhi, fu meraviglia.
martedì 3 giugno 2014
PARIGI E LA NEVE
Lo stupore della neve ci colse a
bassa quota, in fase di atterraggio.
La gente del Sud è abituata a
convivere con la luce del sole, con l’andirivieni del mare, conosce bene la
pioggia e il vento, ma alle latitudini del Mediterraneo la neve è considerata
una rara espressione atmosferica, un’eccezione.
E’ un’emozione inedita che ho
avuto la fortuna di incrociare un paio di volte: la prima da bambina, la
seconda intorno ai 18 anni. Avevo lasciato la sede dell’Università prima che il
cielo ci incantasse con una nevicata liberatoria, spargendo sulle campagne un
soffice manto bianco che cresceva di ora in ora. Nevicò tutto il giorno, fino a
notte fonda. La mattina seguente le scuole rimasero chiuse. Ricordo le
automobili parcheggiate ai bordi delle strade e frenetiche mani da bambino
intente a sbriciolare blocchi di neve, trasformati all’occorrenza in munizioni
che sarebbero servite per assicurarsi la vittoria di una “battaglia” senza
precedenti.
Trepuzzi-Largo Margherita (Dicembre 2001) |
Anni dopo avrei rivisto la neve,
lontano dalla mia terra.
Parigi era scintillante. La
osservavo (dall’alto) distendersi a perdita d’occhio con fare elegante, tra il
luccichio dei suoi notturni e il candore della neve che era caduta in
abbondanza per 72 ore di fila.
La bufera aveva paralizzato
l’Europa del Nord, bloccando per tre giorni l’aeroporto Charles De Gaulle.
Nonostante il notevole ritardo, il 7 gennaio 2009 salii a bordo del velivolo
che mi catapultò nella Ville Lumière. Dall’oblò individuai l’Arc de Triomphe e
la Tour Eiffel… La città più romantica del globo terrestre era pronta ad
accogliermi: le tesi la mano, noncurante della temperatura polare e nonostante
le insidie nascoste lungo le vie di Parigi, trasformate dal gelo in chilometriche lastre di ghiaccio.
Non ero sola, per fortuna. A
vegliare su di me c’era l’inseparabile compagno di viaggio e di vita, avvezzo alle tempeste del
bipolarismo femminile e ai miei malanni itineranti.
Parigi - Gennaio 2009 |
Tutto sommato, nonostante Gerard
Depardieu (reo di aver sfidato la movida leccese) e nonostante il furto della
Gioconda, j’àdore la France e il suo
raffinato idioma. Una liaison alimentata
da ragioni genealogiche e culturali.
La meno rilevante riguarda la mia
formazione scolastica e nello specifico il triennio delle medie. “Booonjourrrr,
booon boonjour. Ripetete bonjour facendo attenzione alla pronuncia nasale”. Fu
questo il biglietto da visita della docente di francese che aveva insegnato
l’ABC della nobile lingua a intere generazioni, suscitando risatine tra i
banchi. “Scrivete Je m’appelle Nicolas fino a riempire cinque pagine”.
L’ho scritto fino alla nausea, corredato da indirizzo, luogo, orario e
situazione metereologica. Poi arrivò la coniugazione dei verbi, “da imparare a
memoria come il 5 Maggio”.
Il perfezionismo didattico
provocò una forma di allergia dilagante sui 2/3 della classe. Il girone degli
svogliati guardava in cagnesco il girone dei secchioni che manifestavano
interesse verso una lingua diversa. Ero molto affascinata dal francese, anche
per l’orgoglio di avere uno zio emigrato in Francia, che viveva da anni nelle
vicinanze di Parigi.
Aveva imparato il francese nel
giro di pochi mesi, ma non avrebbe mai dimenticato la lingua del suo paese d’origine.
“Il mio eterno riposo sarà in Italia” ammoniva rivolgendosi ai parenti dalla
erre moscia. In preda alla rabbia imprecava nel suo dialetto, e proseguiva
nella sua arringa alternando l’italiano al francese. Zio T. era un concentrato
di tenerezza e comicità, che al momento opportuno metteva tutti in riga con il
piglio patriarcale tipico degli uomini meridionali.
Tour Eiffel - Estate 1992 |
“Zio, vorrei un panino al
pomodoro”, sussurrai all’ombra della Tour Eiffel durante la mia prima vacanza
all’estero. Avevo nove anni e la mia irruente italianità pareva già matura.
Zio T. spalancò gli occhi e
sorrise a crepapelle: “Ma qui vendono baguette
avec beurre et jambon, non sei in Puglia”. Rassegnata, azzannai la
croccante baguette, prima di salire sull’ascensore che ci avrebbe portato in
cima alla torre.
A quei tempi l’aereo era un
lusso. Arrivai in Francia sul finire dell’estate a bordo di un “Pony Express” partito
dalla stazione di Brindisi. Viaggiavo in compagnia di due zii e di due cugini.
Impiegammo 26 ore per giungere a destinazione: una traversata oceanica,
permeata dal cattivo odore dei sedili in pelle della vecchia locomotiva, e
intervallata da scorci di paesaggi mai visti prima d’allora: su tutti il Monte
Bianco.
Era solo l’incipit delle mie
avventure da “giramondo”.
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