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domenica 22 febbraio 2015

L'ORA DI ATTUALITA'

Ho smesso di masticare chewing-gum e messo il lucchetto alla “centrale dello spaccio” che per anni ha foraggiato Vigorsol e Vivident. Un tempo distribuivo confetti al mentolo tra i banchi di scuola senza pretendere alcun compenso. Sembravamo esseri ruminanti con una voragine allo stomaco che innescava gli spasmi tipici della fame chimica.  A un passo dalla dipendenza cronica,  giunse la crociata indetta dalla “Papessa Rossa”, docente di lingua e letteratura italiana, femminista convinta nonché anti-fascista, la donna che ha formato e incoraggiato la mia vena scribacchina.

“Chi mastica durante la lezione paga”, ammonì dalla cattedra sgranando i suoi occhi azzurri, limpidi e perfetti come il cristallo. Era bellissima. Raffinata e carismatica. Quello sguardo severo e al tempo stesso materno ci conquistò sin dal primo giorno. I suoi metodi didattici “rivoluzionari”, fuori dagli schemi, furono una palestra di vita nella quale imparammo a combattere i pregiudizi e la discriminazione, imparammo a sognare e a liberare la mente.
Giacché la scuola non è uno sterile contenitore di nozioni da imparare a memoria, né una pila di libri da sfogliare distrattamente. La scuola è molto di più. E noi lo scoprimmo insieme ad una maestra esemplare. Scoprimmo l’importanza di collegare gli eventi storici al presente, di osservare e analizzare il mondo oltre il recinto delle nostre case. E naturalmente a sputare quella maledetta cicca.

Qualcuno provò a bluffare, nascondendola sotto la lingua o appiccicandola sul palato, ma il chewing-gum detector era infallibile. Ci sgamava sempre.
“Colpito e affondato!”
“Professoressa, ma io…”
“Le regole vanno rispettate” ribatteva senza dare possibilità di replica all’alunno colto in flagranza di reato. “Come ben sapete il codice della scuola punisce i trasgressori con una sanzione cibaria. Sei condannato ad offrire un pacco di biscotti ai tuoi compagni.”

Le sue punizioni erano dolci ed aggreganti. Il momento della distribuzione dei biscotti diventava un intervallo extra, l’occasione per sorridere insieme e riflettere sul vizietto che funestava generazioni di studenti e che la prof provava a debellare a colpi di zucchero e farina.

In quegli anni parcheggiammo la noia fuori dalla porta, sulla quale un buontempone aveva scritto: “Lasciate ogni speranza voi che entrate”. Varcata quella soglia trovammo l’entusiasmo di imparare, di leggere e scrivere. Ogni settimana attendevo trepidante l’ora di attualità, fissata per il venerdì. Prima di recarmi a scuola entravo in edicola, compravo il giornale e lo infilavo nello zaino. Era un modo per familiarizzare con i quotidiani locali e nazionali, per cimentarsi nella stesura di un articolo.

“Cosa spinge un gruppo di ragazzi a lanciare dei sassi da un ponte?” mi chiesi mentre la penna scivolava sul foglio bianco. Era quella stessa noia che noi cercavamo di mettere al bando, avventurandoci nel racconto delle notizie. Provammo anche l’ebbrezza di realizzare un tg: in piedi davanti alla cattedra, ci alternavamo nel resoconto di fatti e curiosità. Ombrello nella mano sinistra e un finto microfono nella destra, interpretai l’inviata sotto la pioggia: dal red carpet della scuola media “Papa Giovanni XXIII” (di Trepuzzi), scimmiottando Anna Praderio, annunciai la struggente storia del “Re Leone”.

giovedì 5 febbraio 2015

L'ALTRA SPONDA DELL'ADRIATICO

L’odore del giaciglio su cui trascorse la notte lo tenne ancorato alla terra natìa con la stessa intensità di un cordone ombelicale. In quei fili di paglia era impregnata l’essenza delle montagne che mai avrebbe potuto dimenticare. Dall’altra sponda dell’Adriatico, molti anni dopo, Josif imparò a distinguere ogni singola cima tra una catena di profili evanescenti.

La notte degli addii fu insonne e infinita, sebbene la stanchezza fermasse il respiro. Josif e la sua famiglia camminarono a lungo prima di trovare rifugio in un vecchio capanno disabitato. Avevano abbandonato la casa di Elbasan  giorni prima per intraprendere il sentiero della salvezza, dopo essere stati ridotti in miseria da un impietoso regime dittatoriale. Nell’ultimo mezzo secolo, lo Stato aveva costretto il Paese delle Aquile in una gabbia di ferro, isolandolo dal resto del mondo.

Josif aveva 13 anni quando nel 1991 iniziò a correre verso la libertà. Al suo fianco c’era l’ombra di Dimitri, l’esile bambino cresciuto nella fattoria accanto, rimasto orfano nel 1989 subito dopo la caduta del muro di Berlino. Le vallate dell’Albania costituivano oramai l’ultima roccaforte del regime comunista, le cui fondamenta erano pronte a franare rovinosamente.

Quella notte Josif recitò le sue preghiere a bocca socchiusa. Un profondo squarcio nel tetto di legno lasciava filtrare il chiarore siderale. Assiepata sotto le stelle, la famiglia Laze si preparò a rivoluzionare la propria esistenza. Il cammino indicato dal cielo era nebuloso e pieno di incognite. Nelle tenebre balenavano come falene sguardi e silenzi, fino a che non sopraggiunse l’alba ad irrorare di riflessi viola e turchese il paesaggio circostante.

Gavril, il capofamiglia, aveva lavorato sodo una vita intera, prendendo esempio dagli adulti della sua tribù, uomini dalle spalle larghe e dalla testa dura come quella di un mulo: ogni notte intorno alle tre, si alzava in punta di piedi per nascondere una moneta in un luogo segreto della casa; contravvenendo alle regole della dittatura, era riuscito a mettere da parte un gruzzolo di denaro che sarebbe servito per raggiungere l’Italia. “Un giorno ti porterò a vedere la città eterna” ripeteva da tempo Gavril alla sua secondogenita, Miriam. Una bimba con occhi profondi, accentuati da sopracciglia scure che al sole brillavano come crine di cavallo.  Le piaceva fantasticare,  e al pari di altre ragazzine della sua età sognava il Bel Paese, ammaliata dalle immagini di un mini televisore in bianco e nero che trasmetteva i programmi della Rai.

“Spegni quell’apparecchio” la redarguiva puntualmente sua madre con un velo di rassegnazione. Anjeza non apprezzava lo stile italiano, a suo parere troppo frivolo e superficiale, assai lontano dai valori con cui era cresciuta: su tutti l’incrollabile fede in Dio. “Sono nata in Albania per volere divino, e nessun uomo potrà privare questo paese della speranza” ripeteva con i pugni serrati. 

Tuttavia era giunto il momento di oltrepassare il confine. “Partiamo” le aveva annunciato il marito nelle settimane che precedettero il grande esodo. “Lasciamo l’Albania per sempre. Ho messo da parte dei risparmi per la traversata via mare”. Anjeza rimase impietrita. Guardò dalla finestra e d’un tratto rivide i volti che avevano popolato la sua infanzia riaffiorare oltre i vetri. Mise quei ricordi in valigia alla rinfusa, trascinandoli con sé verso la baia di Valona.

Il barcone li attendeva sulla banchina del porto, al levar del sole. Era il giorno dell’esodo che avrebbe segnato la storia dell’Adriatico. Come una colonia di formiche, migliaia di persone si trascinavano disorientate, in attesa di imbarcarsi sui pescherecci corrosi dalla salsedine.


Miriam si aggrappò impaurita alla giacca del padre, mentre Josif indicava la rotta con la stessa sapienza di un nostromo e s’affannava a scrutare un orizzonte avaro di indizi, dietro il quale si celava il salvifico approdo: la Terra d’Otranto.