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martedì 3 giugno 2014

PARIGI E LA NEVE

Lo stupore della neve ci colse a bassa quota, in fase di atterraggio.
La gente del Sud è abituata a convivere con la luce del sole, con l’andirivieni del mare, conosce bene la pioggia e il vento, ma alle latitudini del Mediterraneo la neve è considerata una rara espressione atmosferica, un’eccezione.
E’ un’emozione inedita che ho avuto la fortuna di incrociare un paio di volte: la prima da bambina, la seconda intorno ai 18 anni. Avevo lasciato la sede dell’Università prima che il cielo ci incantasse con una nevicata liberatoria, spargendo sulle campagne un soffice manto bianco che cresceva di ora in ora. Nevicò tutto il giorno, fino a notte fonda. La mattina seguente le scuole rimasero chiuse. Ricordo le automobili parcheggiate ai bordi delle strade e frenetiche mani da bambino intente a sbriciolare blocchi di neve, trasformati all’occorrenza in munizioni che sarebbero servite per assicurarsi la vittoria di una “battaglia” senza precedenti.
Trepuzzi-Largo Margherita (Dicembre 2001)
Imbacuccata come un’autentica fanciulla delle montagne, raggiunsi la piazza del paese voltandomi di tanto in tanto, incuriosita dallo spettacolo delle orme lasciate dai miei piedi. Ero felice.
Anni dopo avrei rivisto la neve, lontano dalla mia terra.

Parigi era scintillante. La osservavo (dall’alto) distendersi a perdita d’occhio con fare elegante, tra il luccichio dei suoi notturni e il candore della neve che era caduta in abbondanza per 72 ore di fila.
La bufera aveva paralizzato l’Europa del Nord, bloccando per tre giorni l’aeroporto Charles De Gaulle. Nonostante il notevole ritardo, il 7 gennaio 2009 salii a bordo del velivolo che mi catapultò nella Ville Lumière. Dall’oblò individuai l’Arc de Triomphe e la Tour Eiffel… La città più romantica del globo terrestre era pronta ad accogliermi: le tesi la mano, noncurante della temperatura polare e nonostante le insidie nascoste lungo le vie di Parigi, trasformate dal gelo in chilometriche lastre di ghiaccio.

Non ero sola, per fortuna. A vegliare su di me c’era l’inseparabile compagno di viaggio  e di vita, avvezzo alle tempeste del bipolarismo femminile e ai miei malanni itineranti.
Parigi - Gennaio 2009
Monsieur Lupin ha uno spirito di adattamento superiore alla media, in grado di compensare la mia scarsa propensione al cambiamento. Per contro, la sottoscritta incarna nell’80% dei casi lo stereotipo dell’italiano medio che nutre un amore viscerale per il suo letto, per la toilette dotata di bidet, per la pizza margherita e per il risotto alla marinara. Dico no all’expérimentation culinaire, alle zuppette a base di cipolla propinate dagli chef d’Oltralpe e agli scomodissimi cuscini francesi a forma cilindrica.
Tutto sommato, nonostante Gerard Depardieu (reo di aver sfidato la movida leccese) e nonostante il furto della Gioconda, j’àdore la France e il suo raffinato idioma. Una liaison alimentata da ragioni genealogiche e culturali.

La meno rilevante riguarda la mia formazione scolastica e nello specifico il triennio delle medie. “Booonjourrrr, booon boonjour. Ripetete bonjour facendo attenzione alla pronuncia nasale”. Fu questo il biglietto da visita della docente di francese che aveva insegnato l’ABC della nobile lingua a intere generazioni, suscitando risatine tra i banchi. “Scrivete Je m’appelle Nicolas fino a riempire cinque pagine”. L’ho scritto fino alla nausea, corredato da indirizzo, luogo, orario e situazione metereologica. Poi arrivò la coniugazione dei verbi, “da imparare a memoria come il 5 Maggio”. 
Il perfezionismo didattico provocò una forma di allergia dilagante sui 2/3 della classe. Il girone degli svogliati guardava in cagnesco il girone dei secchioni che manifestavano interesse verso una lingua diversa. Ero molto affascinata dal francese, anche per l’orgoglio di avere uno zio emigrato in Francia, che viveva da anni nelle vicinanze di Parigi.

Aveva imparato il francese nel giro di pochi mesi, ma non avrebbe mai dimenticato la lingua del suo paese d’origine. “Il mio eterno riposo sarà in Italia” ammoniva rivolgendosi ai parenti dalla erre moscia. In preda alla rabbia imprecava nel suo dialetto, e proseguiva nella sua arringa alternando l’italiano al francese. Zio T. era un concentrato di tenerezza e comicità, che al momento opportuno metteva tutti in riga con il piglio patriarcale tipico degli uomini meridionali.
Tour Eiffel - Estate 1992

“Zio, vorrei un panino al pomodoro”, sussurrai all’ombra della Tour Eiffel durante la mia prima vacanza all’estero. Avevo nove anni e la mia irruente italianità pareva già matura.
Zio T. spalancò gli occhi e sorrise a crepapelle: “Ma qui vendono baguette avec beurre et jambon, non sei in Puglia”. Rassegnata, azzannai la croccante baguette, prima di salire sull’ascensore che ci avrebbe portato in cima alla torre.

A quei tempi l’aereo era un lusso. Arrivai in Francia sul finire dell’estate a bordo di un “Pony Express” partito dalla stazione di Brindisi. Viaggiavo in compagnia di due zii e di due cugini. Impiegammo 26 ore per giungere a destinazione: una traversata oceanica, permeata dal cattivo odore dei sedili in pelle della vecchia locomotiva, e intervallata da scorci di paesaggi mai visti prima d’allora: su tutti il Monte Bianco.


Era solo l’incipit delle mie avventure da “giramondo”.

2 commenti:

  1. Spero che tanta altra gente abbia ricordi e storie da raccontare allo stesso modo con cui vengono qui raccontate egregiamente dall'autrice, come quella del pony express e come quella del citato zio T. Significherebbe che tanta altra gente non ha vissuto inerte la sua esistenza

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  2. Il panino al pomodoro. Spalancare ricordi.

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