Cerrate profuma di storia e
leggenda. Nella fragilità delle sue crepe si cela l’incuria di chi per anni ha
vissuto ad occhi chiusi, ignorando uno dei tesori più preziosi dell’arte
romanica. L’abbazia è il regno del silenzio, è un luogo misterioso.
Dalla balaustra del pozzo, la
sirena dalla doppia coda, simbolo di fertilità, ammalia con il suo sguardo i
visitatori, evocando canti mitologici. La chiesa, il porticato, il museo
della civiltà popolare torneranno a splendere sulle orme della cerbiatta
inseguita da re Tancredi di Altavilla.
Cerrate risorgerà grazie al FAI,
Fondo Ambiente Italiano, dal 2012 nuovo custode dell’abbazia che corre lungo la
via del mare, tra le campagne di Squinzano e Trepuzzi, e che ha già avuto la
forza di rinascere nel 1965, attraverso la ristrutturazione diretta
dall’architetto Franco Minissi, dopo secoli di abbandono, seguiti al feroce
saccheggio dei turchi.
Era il 1711. Nella notte del 20
settembre, una banda di pirati sbarcata a Torre Specchiolla raggiunse Cerrate, saccheggiò la chiesa, sfregiò
l’effigie della Vergine, per poi depredare le vicine masserie, seminando il
terrore tra gli abitanti.
L’eco della disperazione risuona
ancora oggi. Risuonano pure le note di una marcia nuziale. Sul sagrato, un
formicaio umano attende la sposa. Le fa strada il padre fino all’altare. Non
indossa l’abito bianco, ma una morbida veste verde acqua. «Il bianco è per le
vergini, è il colore della purezza. La creatura che porti in grembo è stata concepita
prima delle nozze». Negli anni ‘80 il
“buon costume” di matrice cattolica era osservato con estremo rigore.
Aurora e Angelo si giurarono amore
eterno tra le mura dell’abbazia costruita nel XII secolo. Le loro promesse
divennero granelli di una storia quasi millenaria.
Il viso dello sposo era rigato
dalle lacrime: Angelo ripensò al padre che aveva perso in tenera età, del quale
non riusciva a ricordare i tratti somatici, né il timbro della voce. L’unica
immagine era quella di una foto in bianco e nero, che lo ritraeva in giacca e
cravatta.
Fu un matrimonio semplice, senza
festeggiamenti. Qualche scatto dopo la cerimonia religiosa e un pranzo
improvvisato a casa dei parenti, per pochi intimi. Brodo caldo per suggellare
il fatidico sì.
Sarei nata cinque mesi dopo. Cinque
anni e mezzo trascorsi da figlia unica, prima dell’arrivo di mio fratello.
Tornando da scuola vidi il fiocco azzurro sul portone di casa. Sorrisi. Bramavo
dalla voglia di vederlo, ma soprattutto di decidere il suo nome. In qualità di
sorella maggiore sarebbe stata una mia prerogativa.
Lo avevo “macchinato” da tempo. Appena giunsi in ospedale lo comunicai ai miei genitori, con la stessa sacralità dell’habemus papam. «Si chiamerà Gianluca» sentenziai.
Lo avevo “macchinato” da tempo. Appena giunsi in ospedale lo comunicai ai miei genitori, con la stessa sacralità dell’habemus papam. «Si chiamerà Gianluca» sentenziai.
Povera illusa! Non avevo fatto i
conti con il cervello degli adulti di sesso maschile. In particolare quello di
mio padre e del suo amico. Lungo il tragitto verso l’anagrafe scombinarono il
mio piano. Tra una chiacchiera e l’altra bocciarono il nome che avevo scelto e
andarono alla ricerca di un altro nome composto. «Piergiorgio» pensarono. «No,
troppe “erre”, meglio Pierpaolo» convennero dopo qualche minuto. L’impiegato
fece il resto, cestinando definitivamente il mio parere.
La notizia mi sconvolse. Piansi
nel corridoio dell’ospedale. Riuscii a calmarmi soltanto quando presi tra le
braccia il neonato più bello che avessi mai visto. Aveva il viso perfetto,
morbido e rotondo, ma stentava ad aprire gli occhi. Li tenne chiusi per giorni,
suscitando la preoccupazione di alcuni parenti. Mia madre era serena.
Quando
Pierpaolo aprì gli occhi, fu meraviglia.
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