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venerdì 13 giugno 2014

L'AMORE AI TEMPI DI CERRATE

Sulla facciata sono visibili i segni del tempo. Come le rughe di una donna.
Cerrate profuma di storia e leggenda. Nella fragilità delle sue crepe si cela l’incuria di chi per anni ha vissuto ad occhi chiusi, ignorando uno dei tesori più preziosi dell’arte romanica. L’abbazia è il regno del silenzio, è un luogo misterioso.
Dalla balaustra del pozzo, la sirena dalla doppia coda, simbolo di fertilità, ammalia con il suo sguardo i visitatori, evocando canti mitologici. La chiesa, il porticato, il museo della civiltà popolare torneranno a splendere sulle orme della cerbiatta inseguita da re Tancredi di Altavilla.
Cerrate risorgerà grazie al FAI, Fondo Ambiente Italiano, dal 2012 nuovo custode dell’abbazia che corre lungo la via del mare, tra le campagne di Squinzano e Trepuzzi, e che ha già avuto la forza di rinascere nel 1965, attraverso la ristrutturazione diretta dall’architetto Franco Minissi, dopo secoli di abbandono, seguiti al feroce saccheggio dei turchi.
Era il 1711. Nella notte del 20 settembre, una banda di pirati sbarcata a Torre Specchiolla raggiunse  Cerrate, saccheggiò la chiesa, sfregiò l’effigie della Vergine, per poi depredare le vicine masserie, seminando il terrore tra gli abitanti.
L’eco della disperazione risuona ancora oggi. Risuonano pure le note di una marcia nuziale. Sul sagrato, un formicaio umano attende la sposa. Le fa strada il padre fino all’altare. Non indossa l’abito bianco, ma una morbida veste verde acqua. «Il bianco è per le vergini, è il colore della purezza. La creatura che porti in grembo è stata concepita prima delle nozze».  Negli anni ‘80 il “buon costume” di matrice cattolica era osservato con estremo rigore.

Aurora e Angelo si giurarono amore eterno tra le mura dell’abbazia costruita nel XII secolo. Le loro promesse divennero granelli di una storia quasi millenaria.
Il viso dello sposo era rigato dalle lacrime: Angelo ripensò al padre che aveva perso in tenera età, del quale non riusciva a ricordare i tratti somatici, né il timbro della voce. L’unica immagine era quella di una foto in bianco e nero, che lo ritraeva in giacca e cravatta.

Fu un matrimonio semplice, senza festeggiamenti. Qualche scatto dopo la cerimonia religiosa e un pranzo improvvisato a casa dei parenti, per pochi intimi. Brodo caldo per suggellare il fatidico sì.

Sarei nata cinque mesi dopo. Cinque anni e mezzo trascorsi da figlia unica, prima dell’arrivo di mio fratello. Tornando da scuola vidi il fiocco azzurro sul portone di casa. Sorrisi. Bramavo dalla voglia di vederlo, ma soprattutto di decidere il suo nome. In qualità di sorella maggiore sarebbe stata una mia prerogativa.


Lo avevo “macchinato” da tempo. Appena giunsi in ospedale lo comunicai ai miei genitori, con la stessa sacralità dell’habemus papam. «Si chiamerà Gianluca» sentenziai.
Povera illusa! Non avevo fatto i conti con il cervello degli adulti di sesso maschile. In particolare quello di mio padre e del suo amico. Lungo il tragitto verso l’anagrafe scombinarono il mio piano. Tra una chiacchiera e l’altra bocciarono il nome che avevo scelto e andarono alla ricerca di un altro nome composto. «Piergiorgio» pensarono. «No, troppe “erre”, meglio Pierpaolo» convennero dopo qualche minuto. L’impiegato fece il resto, cestinando definitivamente il mio parere.

La notizia mi sconvolse. Piansi nel corridoio dell’ospedale. Riuscii a calmarmi soltanto quando presi tra le braccia il neonato più bello che avessi mai visto. Aveva il viso perfetto, morbido e rotondo, ma stentava ad aprire gli occhi. Li tenne chiusi per giorni, suscitando la preoccupazione di alcuni parenti. Mia madre era serena. 
Quando Pierpaolo aprì gli occhi, fu meraviglia.

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