Mi abituai a vivere circondata da
donne vestite di nero: intorno a me, era il colore predominante. Nel primo
nebuloso anno di vita distinguevo i volti familiari in base a ciò che
indossavano.
Il perché lo avrei scoperto
alcuni anni dopo. Non ricordo con esattezza l’istante di quella rivelazione,
giacché ci sono momenti dell’infanzia di cui si ha una consapevolezza sfocata, appartenente a un altro mondo. Eppure costituiscono un’incrollabile
certezza della propria esistenza.
Il mio facciotto, da cui
spuntavano occhi grandi e rotondi, prediligeva il contatto con figure femminili
avvolte in abiti scuri, e andava schivando le sagome colorate.
Era così da quel mattino di primavera in cui la terra si era dipinta di polvere rossa caduta dal cielo. Il
giorno della mia nascita innescò un incendio di emozioni, che avrebbe lasciato
focolai lungo la strada per un tempo indefinito.
Nessuno aveva osato raccontare la
verità. Nessuno ebbe la forza di lacerare le calde viscere materne con la lama
tagliente del dolore. Un dolore inspiegabile, irrazionale, che stritola
l’anima. Un tiro mancino pianificato dalla sorte, o forse un’atroce casualità.
La vita che si scontra con la morte. O la morte che cede il passo ad una nuova
creatura, in una staffetta esistenziale voluta chissà da quale dio. Quel dio a
cui non ho mai stretto la mano, per rabbia, per mancanza di fede.
Le lacrime di gioia divennero
lacrime amare. C’era un uomo provato dalla sofferenza lungo il viale di casa,
che con un incedere lento, con l’inconfondibile suono di passi strascicati, accompagnava la
sua sposa verso il riposo eterno. C’erano anche i suoi figli, il più giovane
appena diciottenne, disorientato tra lo sciame di parenti. All’appello mancava
Aurora, la più giovane delle figlie femmine, diventata madre poche ore prima.
“Maria Pia, chiamala Maria Pia, come tua madre…”
Mentre il mio nome era stato
deciso e scritto, la terra si accingeva ad accogliere le spoglie di nonna.
Il 30 marzo, il giorno della mia
nascita, coincise con la sua morte. Il cuore fragile di una donna gentile e
buona, cessò di battere, poco dopo aver appreso la notizia del lieto evento. Un
infarto impietoso, più aggressivo rispetto al precedente, se la portò via
durante la corsa in ambulanza. Nel suono della sirena si spense il suo ultimo
alito di vita, si spense la bellezza di una nonna che non ho mai conosciuto, fu
scritto il capitolo di una figlia che non ha potuto dire addio alla madre.
Lo scoprì al rientro dall’ospedale,
dopo aver raggiunto la vecchia casa di via Mazzini.
Aurora esplose in un urlo e pianse singhiozzando, senza tregua, senza riuscire
a trovare pace. Viveva il lutto fra lo strazio e il tormento di un’ingiustizia
divina. Ma la sua forza era sorprendente. E il suo amore nei miei confronti non
ha mai vacillato, nonostante il trambusto iniziale.
Fu la prima a togliersi di dosso
quegli abiti neri, per riportare il sole sul mio viso. Anche se le nuvole, si
sa, vanno e vengono. Come nel giorno del mio compleanno, da bambina, quando
nonno mi stringeva a sé piangendo, cercando tra i miei capelli l’odore della
moglie. O quando, nel momento in cui spegnevo le candeline, un prete celebrava la
consueta messa commemorativa.
Nel mio destino c’era quel nome
composto, Maria Pia, legato a quel preciso evento. Oggi, da adulta, ritrovo il
nero nel buio della notte. In compenso, il mio guardaroba è pieno di abiti dai
colori vivaci, come la stagione che mi ha messa al mondo.
Grande Pia.
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